In Io sono Charlotte Simmons Tom Wolfe descrive così l’impressione della sua tormentata protagonista nel corso di una delle sue prime lezioni universitarie: “Gustave Flaubert era uno scrittore molto diretto e lineare, ma usava un sacco di frasi elaborate, espressioni colloquiali e citava una serie di oggetti che lei doveva cercare sul dizionario, dato che Flaubert dava molta importanza ai dettagli”. Poco più avanti, il suo docente di letteratura francese, il professor Lewin precisa: “Flaubert, più che spiegare un punto chiave, voleva farlo vedere. E per mostrarlo aveva bisogno di un punto di vista”. È una circostanza che va tenuta ben presente quando si affronta La tentazione di Antonio (nella traduzione e con l’esaustiva introduzione di Bruno Nacci) che ripercorre, secondo la particolarissima interpretazione di Flaubert, il romitaggio di sant’Antonio. Nelle pieghe del deserto della Tebaide, l’anacoreta passa in rassegna tutte le divinità, si confronta con miti ed eremiti, con la materia e il sogno, l’immaginazione e la fede, e si ritrova in allucinazioni dove i peccati capitali, gola e lussuria prima di tutti prendono forma. Le descrizioni sono abbondanti e spumeggianti: “I vini ruscellano, i pesci palpitano, il sangue ribolle nei piatti, la polpa dei frutti si protende come labbra innamorate; e la tavola sale fino al suo petto, fino al mento, portando un solo piatto e un solo pane, proprio davanti alla sua faccia”. Alle libagioni patrizie, si contrappone il destino atroce della persecuzione dei martiri cristiani. Il contrasto è possente e Flaubert non manca di farlo notare: “Ma in breve è sazio di eccessi e stermini; lo prende la voglia di rotolarsi nell’abiezione. D’altra parte, il degrado di ciò che spaventa gli uomini è un oltraggio fatto al loro spirito, un modo diverso di stupirli; e poiché non c’è niente di più vile di una bestia bruta, Antonio si mette a quattro zampe sulla tavola e muggisce come un toro”. L’eccesso linguistico è all’ordine del giorno e il pellegrinaggio di Antonio è una colossale panoramica mitologica e cosmologica che si snoda come una tempesta sulle rive del Mar Rosso. Secondo Ilarione, già suo discepolo e il più loquace tra le apparizioni, “forse non è così difficile. Le esortazioni degli amici, il piacere d’insultare il popolo, il giuramento fatto, una certa vertigine, soccorrono mille circostanze”, ma per il santo le lusinghe sono una tortura e il conflitto si propaga in tutte le direzioni. Ilarione è assillante nello spingerlo ai limiti (“Ma fuori dal dogma, ci è permessa una completa libertà di ricerca”) e Antonio si rivela un viandante che caracolla nello spazio e nel tempo (ci vuole il raffinato glossario in appendice per districarsi nelle sue visioni) finché Flaubert non gli fa chiedere: “Cos’è un miracolo? Un avvenimento che ci appare fuori dalla natura. Ma forse che noi conosciamo tutta la sua potenza? E dal fatto che normalmente una cosa non ci stupisce, ne segue che la capiamo?”, e il dilemma diventa l’occasione per sfoggiare un florilegio erudito capace di collassare le culture classiche, greca e latina, in un’acrobazia teologica senza fine. L’accavallarsi di estasi e dispute (che spesso coincidono) è mostrato da Flaubert proprio attraverso la prospettiva di Antonio (ecco, il “punto di vista” di cui parlava Tom Wolfe) che, nella sua santità, ha l’enorme pregio di restare umano in mezzo a tanto travaglio divino e demoniaco. Dice, tra l’altro: “Il mio pensiero si dibatte per uscire dalla sua prigione. Mi sembra che mettendo insieme le mie forze ci riuscirò. A volte, nello spazio di un lampo, mi trovo come sospeso; poi torno a cadere”. La raffigurazione fluttua irriverente e cangiante ben sapendo che “quando il cuore è puro l’apostasia è permessa” e La tentazione di sant’Antonio ammette che l’insidia più grande non arriva dall’alto dei cieli o dal profondo degli inferi, ma da un angolo remoto del nostro essere.
Nessun commento:
Posta un commento