lunedì 24 marzo 2025

Fabrice Tassel

Un incidente su un molo, un’indagine che è il classico atto dovuto, uno screzio irrilevante nascosto ai magistrati. Thomas (e Anna) non hanno nemmeno mentito in un momento di profondo buio. In confronto all’imponderabile dolore per la perdita del figlio, Gabi, quell’omissione, che non è neanche una bugia, piuttosto una verità tralasciata, risulta un elemento marginale, un piccolo neo nel corso delle procedure legali. Eppure è lì quando la giudice Dominique Bontet lo scopre e seguendo l’istinto non riesce ad archiviare la pratica. Il procuratore, nel nome della produttività e dell’amministrazione della giustizia, vorrebbe maggiore celerità nelle decisioni. I fascicoli sono tanti e si accumulano, ma, lei lo sa bene, “c’è sempre un vuoto, un punto dal quale tendere un’imboscata. Un’ipotesi impossibile. Uno spazio per l’immaginazione, per usare una parola che a lei chiedono di bandire”. La differenza tra la “convinzione” richiesta dal codice di procedura penale e l’intuizione porta Dominique a spingersi più avanti e a confessare al compagno, Antoine: “Perché un’indagine sia perfetta devi conoscere non soltanto i dettagli di un avvenimento, ma anche quello che è successo prima, e persino quello che è successo dopo, solo che è praticamente impossibile”. Dominique preferisce inseguire una giustizia più vicina alla verità che all’efficienza e questa è una distinzione molto delicata quando si tratta di violenze domestiche, e sulle donne, nello specifico. Diventa difficile anche separare il credibile dal reale, ovvero “la completezza e la sufficienza” delle prove. Una questione spinosa che, per lei e per i casi che sta seguendo, quello di Iris e quello di Anna, si rivelerà dirimente. Senza dubbio è il personaggio in grado di spiccare, se non altro per la dimensione psicologica che la vede assorbire non soltanto il lavoro giudiziario, ma anche il dolore delle donne. L’empatia non riceve particolari encomi, ma le sarà utile, anche perché Dominique è sempre al limite delle regole e dei codici deontologici della magistratura. D’altra parte, “sono ormai vent’anni che la sua vita è scandita da visi, fantasmi, vittime e carnefici che coabitano per settimane, mesi o anni, mentre lei si tiene in piedi in mezzo alle rovine”. L’ultimo arrivato nel suo ufficio, Thomas Sénéchal, è un bel rappresentante di “quegli uomini arrabbiati contro la loro stessa miseria”. Forse “non era un bugiardo patologico, semplicemente dal mondo si aspettava di più”, ma condivide la precarietà raccontata anche da Pierre Lemaitre, una delle letture preferite di Dominique, e, in particolare, non è molto distante da quel personaggio in Il silenzio e la collera che “si sforzava di non pensare che era una persona in difficoltà, ma era più forte di lui, le sue sbandate lo spaventavano”. Se, tra un fallimento e l’altro, l’esistenza di Thomas Sénéchal, come del resto quella degli altri che “sembrano uomini”, diverge e tende alla solitudine e al disorientamento, le vite delle donne (Dominique, Anna, Iris) convergono. Questa geometria variabile si ripropone con una regolare frequenza e genera il ritmo serrato della storia, garantito dall’accurata scrittura di Fabrice Tassel: Sembrano uomini (nella traduzione di Francesca Bononi) ha le sequenze delle maree, e del resto siamo in Bretagna, e avanza a ondate. I protagonisti vengono spostati di volta in volta verso il loro destino, che appare ineluttabile più Dominique si avvicina ai loro casi. Persino Anna, a sua volta, si ritrova “sola e libera”, ma Dominique ha ancora dei passi da fare. La chiave di volta, e la soluzione del rebus, sarà ancora una volta nell’oceano dove tutto è cominciato, facendo venire a galla il potere deformante della menzogna, che scava un solco irreparabile.

venerdì 21 marzo 2025

Graham Swift

Diceva Graham Swift che “una delle funzioni fondamentali della narrativa sia quella di confrontarsi con il passato e mediare la relazione tra passato e presente”. È una precisazione molto utile per seguire tre generazioni della famiglia Beech in Via da questo mondo. Robert, il capostipite, perde un braccio nella prima guerra mondiale, viene decorato con una Victoria Cross e gli viene affidata una fabbrica di munizioni che, inevitabilmente, nel corso degli eventi, diventerà un caposaldo degli sforzi bellici. Un ritratto con Churchill celebra il momento, mentre il figlio Harry è destinato all’osservazione delle riprese aeree a cui, per naturale estensione, affianca la sua passione per la fotografia e inquadra  gli equipaggi di ritorno dalle missioni, un po’ vivi e un po’ morti. Diventerà un reporter prima durante il processo di Norimberga (dove sposa Anna), poi in Congo, a Birmingham, Alabama e in Vietnam nel 1965. Quasi a riconoscersi in “un indice del ventesimo secolo”, il suo lavoro è riportato in una raccolta chiamata Conseguenze dove ammette che “il grande valore della fotografia consiste nella sua attualità, nella sua mancanza di tatto, nella sua forza d’intrusione”. Resta il fatto che momenti della storia sono “mondi piccoli. Mondi grandi. L’uno può eclissare l’altro. Quando la luna copre il sole e fa oscurare il mondo, non è perché la luna è più grande del sole” e alle alterne vicende famigliari si sovrappongono i conflitti che Harry vede attraverso le lenti della macchina fotografica, tenendo presente che “il fotografo c’è e non c’è, non è né dentro né fuori. Se ci sei dentro è terribile, ma non ci sono problemi, tu fai quel che devi fare e non hai neanche il tempo di guardare. Qualcuno dev’esserci dentro e deve anche fare un passo indietro. Qualcuno deve testimoniare”. Vale quando un attentato dell’IRA uccide Robert, spalancando un baratro nella famiglia Beech e quando, ormai nel 1982, la marina inglese fa rotta verso le Falklands che Harry definisce “una guerra da mettere in vetrina. Una guerra da esposizione. Un’ultima piccola guerra in nome dei vecchi tempi”. A New York, Sophie, figlia di Harry, e madre dei gemelli, Paul e Tim, deve confrontarsi con un analista, K., e il suo è, in pratica ,un monologo: “Come fai a sapere, quando torni tanto indietro, che è veramente un ricordo? E non quello che ti hanno detto dopo, o che hai inventato tu? O un semplice parto della tua fantasia?”, una domanda che, come molte altre, resta inevasa. Il confronto a distanza tende a escludere o dissimulare gli altri personaggi. Anna scompare nei ricordi della Grecia travolta dal golpe dei colonnelli e Joe, il marito di Sophie, pare accontentarsi di un ruolo minore (“Lo so che per me non c’è mai stato in palio niente di grosso, nessun progetto, nessun incarico particolare. Sono stato quello che si definirebbe un imprevisto, o quasi. Un ospite, e basta. Un ospite in più, alla festa”) ed è chiaro che Via da questo mondo è fondato su un impervio dialogo tra padre e figlia, separati da una bomba, da un oceano, dagli anni, al punto di chiedersi: “Ma a che serve la vita, e a che servono questi maledetti film, se ogni tanto non riesci a scoprire che il modo in cui credevi non andassero le cose, quando credevi che andassero così solo nei film, è il modo in cui vanno veramente?”. Le capriole verbali preludono alla grande novità, quando Harry decide di sposare Jenny, molto più giovane di lui, e scrive a Sophie per invitarla in Inghilterra. Graham Swift riesce a mantenere un grande e raffinato equilibrio: sarà una coincidenza, ma entrambi (Harry e Sophie) stanno volando quando percepiscono la svolta che li coinvolge, come se fosse necessaria una certa distanza dalla terra per lasciarsi andare. Proprio Sophie, mentre sta tornando con i figli in Inghilterra, dice: “Al tempo succede qualcosa. Succede qualcosa alla normalità. Ci fanno un buco. Un buco senza fondo. Così quello che in un attimo è finito continua ad accadere. Accade a lungo, al rallentatore. E poi continua ad accadere”. Ed è così che con Via da questo mondo, Graham Swift asseconda “la prima regola della fotografia: devi cogliere le cose di sorpresa; la macchina non inventa” e poi con uno stile elegante e pungente, lascia tutto sospeso sull’Atlantico, una porta aperta e un futuro ancora da scrivere.

lunedì 17 marzo 2025

Samantha Harvey

Orbital un’esperienza di scrittura rarefatta come l’atmosfera nello spazio, senza un dialogo, anche se non mancano le divagazioni perché ognuno dei viaggiatori quando guarda verso la terra ricorda legami, incontri, storie. Nella stazione orbitante il tempo collassa, non meno degli spazi, e non c’è equilibrio tra le limitatissime possibilità all’interno dell’involucro aerodinamico e quelle infinite e misteriose dell’universo, là fuori. Nell, Pietro, Chie, Roman, Shaun, Anton “all’improvviso dimenticano il loro ruolo di astronauti e provano la sensazione fortissima di essere tornati piccoli, all’infanzia”. Dall’alto devono seguire un tifone che imperversa sull’oceano Pacifico, pensano ai Voyager, le sonde spaziali ormai giunte ai limiti della loro missione, cercano di convivere con le emozioni e le piccole necessità di un’unità asettica, sapendo in fondo che, alla pari della strumentazione di bordo, “non sono altro che un ammasso di dati, fondamentalmente. Un mezzo e non un fine”. La condizione è aleatoria e contraddittoria, le orbite si estendono sulla terra una dopo l’altra, e frugare nello spazio, ovvero proseguire con “la ricerca del vuoto” è un’impresa improba, se non proprio inutile, al punto di convincersi che gli esseri umani siano “qualche scintilla di pietra focaia più avanti rispetto al resto, tutto qui”. L’effetto è ipnotico, ma anche straniante, come se, orbita dopo orbita, la conclusione si allontanasse, invece di completarsi. Samantha Harvey ha trovato il tono adatto per trasmettere il generale senso di inquietudine che condividono gli astronauti di Orbital, tra lo stupore degli orizzonti e delle linee terrestri che si mettono in mostra per ogni rotazione alla complessità delle condizioni (biologiche, psicologiche, tecniche) a cui vengono sottoposti i corpi e le coscienze dei viaggiatori. Un processo originale, senza dubbio, ma riflette ed è permeato dallo stesso senso di claustrofobia che si addensa in Orbital e richiede un alto livello di concentrazione. La scrittura è il frutto finale di un composto in perenne cerca di equilibrio tra l’introspezione, il silenzio e il confronto dei protagonisti, le annotazioni tecnologiche e specifiche della missione, il cielo e il buio, i pianeti e le galassie, la terra vista dallo spazio e piccoli inconvenienti quotidiani che a casa, su un pianeta maltrattato, sarebbero ai limiti della banalità e lassù, invece, sono un’impresa. Le misure, a partire dall’assenza di gravità, definiscono un microcosmo tutto chiuso e fuori un universo aperto e infinito, un habitat che comprime i corpi non meno dei pensieri e uno che si espande come una bolla e dato che “lo spazio fa a pezzi il tempo”, in Orbital “i secondi si dissolvono e hanno sempre meno significato. Il tempo si riduce a un punto su un campo bianco candido, preciso e assurdo, poi si gonfia e perdere i contorni, diventando informe”. La prospettiva è biunivoca: vicino e lontano collassano uno sull’altro, la meraviglia dell’avventura tra le stelle sfuma nella nostalgia e nella malinconia e nell’infinitesimo resta l’attesa e/o la speranza per  “l’improvviso agguato della felicità”. Con tutta la raffinata grazia della scrittura di Samantha Harvey, Orbital è un romanzo estremo, bello e inafferrabile.