
lunedì 29 gennaio 2018
Théodore Monod

giovedì 25 gennaio 2018
Peter Handke
Le repentine trasformazioni collezionate con Il mio anno nella baia di nessuno prendono forma con una confessione di Gregor Keuschnig, già protagonista in L’ora del vero sentire e imperfetto alter ego di Peter Handke: “La mia vita ha una direzione che io ritengo buona, bella e ideale, e al tempo stesso l’esistenza di un singolo giorno non è affatto diventata una cosa ovvia. Il fallimento, mio, di altri, sembra addirittura la regola. I miei amici erano soliti dire che prendevo troppo sul serio le cose di poco conto e che ero troppo severo con me stesso. Io invece credo che se non avessi sempre dribblato di nuovo il mio costante fallimento di tutta la vita, ma lo avessi voluto ammettere anche soltanto un’unica volta, non esisterei più”. Le sconfitte esistenziali dipendono, e insieme vengono esorcizzate, dalla “notte del narrare”: la storia in sé è la trama stessa che si genera in contemporanea alla scrittura, attraverso la ripetuta osmosi di identità di Peter Handke con lo scrittore, con Gregor Keuschnig, con il narratore e con se stesso nei molteplici viaggi che poi lo riportano a ritrovare le coordinate mitteleuropee, lungo il corso del Danubio, su entrambi i versanti delle Alpi, sulla dorsale dei Balcani, che sono sempre nei suoi pensieri anche nella “baia” parigina dove si è ritirato per premura verso le sue metamorfosi. E’ così che ci si inoltra così in un labirinto kafkiano, con Gregor Keuschnig nel ruolo di anfitrione ciarliero, brillante, eccessivo che, proprio a metà dei pellegrinaggio, dopo un’apocalisse di parole, di incontri, di ricordi, di chiacchiere, arriva alla conclusione che “soltanto come racconto scritto il mio raccontare è conforme alla mia natura”. Il mio anno nella baia di nessuno ruota tutto intorno a questa convinzione e per il lettore è imperativo trovare il tempo per districarsi nel salmodiare di Gregor Keuschnig, che segue soltanto la sua memoria, una ricerca che “almeno una volta al giorno” si trasforma in “qualcosa di maniacale, prossimo alla follia”. L’impegno richiesto da Peter Handke è notevole e costante, non solo perché Il mio anno nella baia di nessuno è una sterminata, voluminosa riflessione sulla natura stessa della narrativa, che si evolve da un’assioma, ovvero la “fantasia non è illusione”, da solo già più che sufficiente a garantire anni di meditazione, per giungere all’ammissione di un limite, se non di una vera e propria resa, quando Gregor Keuschnig dice che “lì non c’era nient’altro che una sensazione, vasta quanto la superficie dissodata, della quale mentre scrivevo questo, cercai l’immagine, invano”. Bisogna dire che Peter Handke, sapendo che “la cosa osservata, per quanto modesta, poteva trasformarsi nel mondo”, molto abile, attento e saggio nel confezionarsi più di un alibi, visto che Il mio anno nella baia di nessuno si consuma insieme al crepuscolo del ventesimo secolo, con molto più da raccontare “dei nostri giorni che non dei nostri anni, per noi uomini d’oggi”. Uno scarto che rimane irrisolto e se il saldo finale può tornare è soltanto per il soccorso del lettore, ma anche qui Peter Handke sottolinea e precisa perché “il leggere sarebbe poi una passione, meravigliosa, se è un appassionato voler-capire; sento l’urgenza di leggere perché voglio capire. Non leggere a casaccio: per il racconto, per il libro, devi essere ricettivo. Tu sei ricettivo?”, e, sì, la domanda è sempre quella.
lunedì 22 gennaio 2018
Tahereh Alavi

sabato 13 gennaio 2018
Ryszard Kapuściński
Grande reporter, osservatore acuto e straordinariamente sensibile nonché insaziabile viaggiatore, Ryszard Kapuściński si addentra in un percorso che spesso è più insidioso di mille campi di battaglia: la sua autobiografia. Con l’esperienza che si è ritrovato, era intuibile che non cadesse nelle trappole della celebrazione o della nostalgia. Anche in questo caso, come in tutti i suoi pregevoli precedenti, Ryszard Kapuściński si avventura con un certo grado di incoscienza che lui stesso ammette, tra le righe: “Ero partito per quel viaggio completamente impreparato: senza un taccuino, senza un nome, senza un indirizzo. E senza conoscere l’inglese. In realtà ero partito solo per ottenere una cosa altrimenti impossibile: varcare la frontiera”. Vantando poi un’umiltà che ricorre sempre nei grandi osservatori, Ryszard Kapuściński sceglie di raccontare il suo peregrinare nel mondo attraverso la complessità della figura di Erodoto che di volta in volta diventa, come il titolo suggerisce, compagno di viaggio e testimone, modello di riferimento e protagonista, scialuppa di salvataggio e faro nella notte. La partenza è tutta nel superare i confini, un atto che In viaggio con Erodoto ribadisce quella che è stata una scelta vitale: “Quello che volevo era semplicemente varcare una frontiera, quale che fosse: non mi premevano lo scopo, il traguardo, la meta, ma il mistico e trascendentale atto in sé di varcare la frontiera”. Da quel momento in poi luoghi dei suoi reportage, nelle odissee intraprese con l’istinto e la curiosità verso l’India, la Cina, l’Iran, l’Egitto, l’intera Africa, Ryszard Kapuściński e, in parallelo, Erodoto ridefiniscono il senso del viaggio che “non inizia nel momento in cui partiamo né finisce nel momento in cui raggiungiamo la meta. In realtà comincia molto prima e non finisce mai, dato che il nastro dei ricordi continua a scorrerci dentro anche dopo che ci siamo fermati”. In viaggio con Erodoto diventa così uno strumento perfetto non soltanto per scoprire e riscoprire Ryszard Kapuściński, ma anche per intravedere alcune riflessioni filosofiche nel suo affrontare la realtà (“Ognuno vede la realtà a modo suo, ognuno vi aggiunge i propri ingredienti. Il che rende impossibile ricostruire il passato nella sua verità storica: tutto quello che possiamo ottenerne sono varianti più o meno verosimili, più o meno rispondenti alla nostra mentalità odierna. Il passato non esiste. Esistono solo le sue infinite versioni”) e la memoria (“E’ l’eterna lotta dell'uomo contro il tempo, contro la labilità della memoria, contro la sua tendenza a offuscarsi e svanire. E’ da questa lotta che nasce l’idea del libro, di ogni libro, nonché la sua durata e, per così dire, la sua eternità. L’uomo infatti sa, e invecchiando lo sente con maggiore evidenza, che la memoria è fragile e fuggevole e che, se non fissa le proprie esperienze e conoscenze in modo più stabile, rischia di perderle”), aggiornando e superando il viaggio come metafora della vita. Tra i libri più ispirati di Kapuściński.
venerdì 12 gennaio 2018
Hafid Bouazza

mercoledì 10 gennaio 2018
Malcolm Mackay
Bastardi
propone una forma evoluta del noir, dove i protagonisti cercano di
ridurre le distanze tra una vita normale e quella criminale che
conducono. Se la logica rispetta i meccanismi del genere, e non
potrebbe essere diversamente, l’intreccio dei rapporti, soprattutto
tra uomini e donne, presuppone un’etica del lavoro, un lavoro che
non puoi lasciare fuori dalla porta perché è quello che è (non è
un lavoro), complicata dalla difficoltà di conoscere lingue e
linguaggi diversi e dalla realtà di una città dura e cupa. E’ il
motivo per cui Martin Sivok incontra Usman Kassar che lo introduce
nei meandri delle attività criminose di Glasgow, un terreno impervio
e ambiguo su cui vigila Nate Colgan, uno abituato da sempre ai
margini, all’oscurità e alla brutalità necessaria per
sopravviverci. Malcolm Mackay (originario delle isole Ebridi, classe
1981), già conosciuto con La
morte necessaria di Lewis Winter
ha la bussola che puntata sempre verso il giusto profilo dei suoi
personaggi, li tallona da vicino e non li perde mai di vista e La
dimensione più affascinante di Bastardi
è proprio la collocazione delle azioni di Martin Sivok e Usman
Kassar, rappresentanti “blue collar” del crimine, quindi a un
livello ancora più infimo, un aspetto che Malcolm Mackay ci tiene ad
approfondire: “Fin dal mio primo libro, ho quest’idea del crimine
che, sì, viene fatto per i soldi, ma sempre come se fosse un lavoro
normale, un’occupazione vera. Anche se oggi è difficile definire
cosa possa essere normale: qualsiasi cosa voglia dire, alla fine,
credo che le regole del mondo del crimine siano universali e valgano
anche a Glasgow. Conosco bene la città, anche se provengo dalle
isole, ha una reputazione difficile da smentire, ed è molto dura”.
Un posto dove è facile diventare bersagli, e dove l’amicizia tra
Martin e Usman contiene già tutti gli elementi di pericolo che
incombono sulle giornate “lavorative” dei Bastardi.
Il legame ambivalente tra i due si moltiplica con le rispettive
compagne, Joanne Mathie e Alison Glenn. Anche se le circostanze sono
“complicate”, Malcolm Mackay pone l’attenzione sui ripetuti
tentativi di crearsi una parvenza di vita famigliare, sottolineando
in continuazione l’idea che sia qualcosa di “normale” nelle
loro attività delinquenziali. Va da sé che il contrasto cresce
pagina dopo pagina, anche perché Bastardi
comincia già
con Martin imprigionato e destinato a qualcosa di molto, molto
spiacevole perché nel suo “normale” lavoro ha commesso un
errore, ha stretto la mano sbagliata o si è fidato di un “contatto”,
cosa che poi si scoprirà seguendo il lungo flashback su cui si snoda
il romanzo, che ha tutta una sua logica cinematografica. Forse Martin
avrebbe fatto bene ad ascoltare Usman quando gli aveva detto che “non
è un lavoro perfetto. Potremmo dover mollare la fottutissima storia
ancora prima che inizi”. Il rischio c’è sempre (“Ma è così
che funziona il business, giusto?”) e per essere dei veri Bastardi
bisogna dimenticarsi che, una volta usciti di casa per andare al
“lavoro”, la probabilità di non tornare più fa parte della
posta in gioco, anche se ci sono Alison o Joanne ad aspettarti. Un
romanzo da scoprire e uno scrittore da tenere d’occhio.
martedì 9 gennaio 2018
Derek Jarman

sabato 6 gennaio 2018
Tahar Ben Jelloun
“Fuori,
non solo sopra la nostra fossa, ma soprattutto lontano da essa, c'era
vita. Non bisognava pensarci troppo, ma mi piaceva evocarla per non
morire d’odio. Evocare, non ricordare. La vita, quella vera, non lo
straccio sporco che rotola per terra, no, la vita nella sua bellezza
squisita, cioè nella sua semplicità, nella sua meravigliosa
banalità: un bambino che piange e poi sorride, occhi che si
strizzano per una luce troppo forte, una donna che prova un vestito,
un uomo che dorme sull'erba. Un cavallo corre nella pianura. Un uomo
con ali multicolori cerca di volare. Un albero si piega per fare
ombra a una donna seduta su una pietra. Il sole si allontana, e si
vede persino un arcobaleno. La vita è poter alzare il braccio,
metterlo dietro la nuca, stiracchiarsi per puro piacere, alzarsi e
camminare senza meta, guardare la gente che passa, fermarsi, leggere
un giornale o semplicemente starsene seduti davanti alla finestra
perché non si ha niente da fare ed è bello non fare niente”: è
un passo centrale e fondamentale di Il libro del buio e già
basta a chiarire le dimensioni di un capolavoro. Asciutto, cupo,
grezzo e a tratti crudele, Il libro del buio si snoda con un
ritmo rarefatto, metodico e inesorabile che Tahar Ben Jelloun declama
instancabile pagina per pagina, come se stesse narrando ad alta voce
la vicenda (basata su una storia vera) di un gruppo di prigionieri
confinati in un buco oscuro, in mezzo al deserto, per diciott’anni.
A loro manca tutto, non solo la luce. Cibo, salute (fisica e
mentale), la possibilità di leggere e scrivere, il contatto umano
(ognuno è segregato in una cella), le più elementari norme
igieniche. Si trovano in una condizione in cui “qualsiasi banalità
diventa eccezionale, la cosa più desiderata al mondo”. Sono
costretti persino a imparare ad ascoltare i movimenti degli
scorpioni, e a rispettarli, per evitare di essere punti, e quando non
sono gli elementi naturali, il freddo o l’insonnia, c’è sempre
la tortura o il rischio di un’esecuzione sommaria. Sono quelli i
termini per cui ogni esperienza legata all’umanità viene azzerata
a partire dalla percezione del futuro perché “la speranza era come
una negazione. Come far credere a uomini abbandonati da tutti che
quel buco era solo una parentesi nella loro vita, che dopo aver
subito questa prova ne sarebbero usciti più maturi e migliori? La
speranza era una menzogna con le virtù di un calmante. Per
superarla, occorreva preparasi quotidianamente al peggio”. Il buio
è soltanto una rappresentazione di tutte le incognite, come se
fossero già in una tomba, e la morte, che è un ospite tutt’altro
che raro, arriva puntuale a ricordarglielo Eppure nel condividere “il
tempo che non ha più senso”, nello scoprire “un minuscolo raggio
di luce”, forse inventato, forse immaginato, nell’estenuante
resistenza, che “è un dovere, non un obbligo”, (e la parola
diventa davvero un sinonimo di sopravvivenza), nella dignità di chi
sta pagando un prezzo troppo alto, quale che sia la colpa, Il
libro del buio si rivela una liricissima elegia alla vita e alla
libertà.
mercoledì 3 gennaio 2018
Chris Salewicz

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