Nel Sudafrica alla fine del ventesimo secolo, Claudia e Harald Lindgard sono una coppia perfetta. Lei è medico, rapita dal proprio lavoro e vagamente progressista. Lui è un manager finanziario, fervido credente e lettore con Dostoevskij regolarmente sul comodino. Bianchi, benestanti, moralmente inattaccabili, quasi irritanti nella loro serafica quotidianità, sembrano non avere un-problema-uno in tutta la loro vita, ma una sera scoprono che il figlio, Duncan, è stato arrestato per omicidio. “L’ignoto porta con sé il terrore” scrive Nadine Gordimer, ed è esattamente quello che succede nella famiglia Lindgard: incredulità, sgomento panico, paura. All’improvviso, con il suono di un citofono, scoprono che “i banali riti del vivere sono una stordita continuità che si stende a ricoprire il luogo in cui tutto si è fermato” e proprio lì, in mezzo alle macerie di un mondo di certezze crollato rovinosamente, emerge il contesto in cui viveva Duncan (il figlio prediletto, architetto, una carriera davanti a sé), lo stesso in cui è maturato il delitto: una vita comunitaria la cui promiscuità di amicizie, sentimenti, preferenze sessuali, abitudini e scelte ha influito su chi ha tirato il grilletto della “house gun”, la pistola a disposizione di tutti per l’autodifesa e in protezione della casa comune. L’imperativo per la famiglia Lindgard esula dai contorni che si è costruita e definita: “Tirarlo fuori dai guai. La cruda espressione presa dal gergo della confraternita criminale era quella giusta per la determinazione cui adesso erano votati. Con qualsiasi mezzo, a ogni costo, sì, la vecchia metafora chiaramente accettava, includeva l’inganno”. A quel punto entra in scena, con tutto il suo ingombro, Hamilton Motsamai: l’avvocato (naturalmente, uno dei migliori) scelto dai Lindgard per seguire il caso di Duncan. Una figura importante in Un’arma in casa: un barone del foro, nero, massiccio, corazzato (e probabilmente con un bell’avvenire politico, in prospettiva) che si muove con ogni precauzione possibile verso i suoi clienti, compresa una reciproca diffidenza, almeno nelle fasi iniziali di quelle che Nadine Gordimer definisce le “convenzioni legali”. Claudia e Harald Lindgard sono costretti a vivere la minuziosa ricostruzione dei fatti attraverso gli atti processuali gestiti da Hamilton Motsamai che li conduce per mano attraverso il dramma fino alla conclusione del processo che, già dalla prima udienza, è largamente prevedibile. Almeno da un punto di vista giudiziario: un paese dove grava ancora l’ombra della pena di morte, l’avvocato riesce a ottenere per Duncan Lindgard, che è colpevole (e reo confesso), “la sentenza più clemente possibile”. Quanto e come è del tutto relativo perché “la maledizione è sui di lui anche se la legge non ne esige i frutti. Nessuna messinscena; questa è la realtà”: tutta la storia scava dentro i Lindgard che si vedono infine immobili, forse inutili, in attesa di un “segnale che avrebbe rimesso in moto l’esistenza, che li avrebbe fatti uscire dalla regressione in cui si erano rifugiati agendo in automatico, riempiendo con l’eco delle loro voci il vuoto privo di significato”. Come se in Un’arma in casa Nadine Gordimer non avesse fatto altro che espandere, da premio Nobel quale è, l’epigrafe iniziale di Amos Oz: “il delitto è il castigo”.
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