In un villaggio nel bel mezzo dell’Europa, delimitato ai quattro angoli cardinali da altrettanti arcangeli a definire un mondo terrestre (e non), il tempo appartiene a tutti: a Genowefa, al parroco, a Eli, alla casa, al castellano Popielski, al micelio, ai tigli e naturalmente a Dio. Se lo contendono schiacciandolo in altrettante storie perché il tempo è una dimensione e insieme un soggetto. La cronologia in senso stretto è segnata da fatti storici che vanno dalla prima guerra mondiale a qualche anno prima della caduta del muro di Berlino, ma in Dio, gli uomini e gli angeli, la realtà è solo una delle tante possibili variabili, e la percezione del tempo è determinata nella stessa misura dalla fantasia, dalla magia, dalla fede. Le distanze sono quelle tracciate dall’angelo di Misia che “osservava gli avvenimenti come si guarda scorrere l’acqua. Non lo interessavano in se stessi, non lo incuriosivano, poiché conosceva il punto di partenza e la destinazione, l’inizio e la fine del loro corso. Vedeva fluire avvenimenti simili e dissimili, vicini e lontani nel tempo, scaturiti gli uni dagli altri e assolutamente indipendenti tra loro, senza che questo avesse per lui alcun significato”. La corrente è una metafora che torna spesso e che è utile conoscere bene, come ricorda anche il parroco: “Il fiume non provava più a svincolarsi dalla sede che gli era stata assegnata. Scorreva tranquillo e pensoso, opaco e impenetrabile allo sguardo degli uomini. Lungo entrambe le sue rive i prati cominciarono a verdeggiare, quindi si ricoprirono di denti di leone”. Il rapporto con la natura, e con gli alberi in particolare, riflette un rapporto specifico con la “materia” e gli oggetti a cui Olga Tokarczuk attribuisce un’anima che corrisponde per estensione a quella del villaggio. Il senso di questa caratteristica sembra spiegato da Misia: “Se osserviamo gli oggetti con attenzione, a occhi chiusi per non farci trarre in inganno dalle apparenze dietro cui le cose si nascondono, se ci concediamo di essere diffidenti, possiamo scorgere almeno per un attimo il loro vero sembiante. Le cose sono creature immerse in un’altra realtà priva di tempo e movimento. Noi vediamo soltanto la loro superficie. È tutto il resto, immerso altrove, a determinare il significato e il senso di ogni oggetto materiale”. Trasposta in una scrittura lirica e fascinosa, la visione sembra mostrare che Dio, gli uomini e gli angeli condividono un provvisorio continuum temporale. Se esiste davvero, oppure no, resta una questione irrilevante perché giunti al tempo di Dio in persona si capisce che “gli uomini, che a loro volta sono un processo, temono ciò che è instabile e in continuo mutamento. Perciò hanno inventato qualcosa che non esiste: immutabilità, giudicando perfetto tutto quanto sia eterno e immutabile. Hanno dunque attribuito l’immutabilità a Dio, perdendo in tal modo la capacità di comprenderlo”. Il contesto in cui cresce il romanzo è quindi etereo, quasi impalpabile, forse per volontà della stessa Olga Tokarczuk che lo ha descritto come “la storia di un mondo, che come ogni cosa nasce, cresce e muore”. Dio, gli uomini e gli angeli è una fiaba densa e laboriosa che conduce il lettore verso mondi sconosciuti, che Olga Tokarczuk mette in scena con notevole destrezza. Ciò offre un’infinità di possibili divagazioni e il principale merito di Olga Tokarczuk è quello di aver contenuto e circoscritto un universo narrativo con un gusto fantastico: Dio, gli uomini e gli angeli può essere letto anche come una moderna serie di novelle in cui complessità e leggerezza convivono senza forzature e, anzi, suggerendo ripetutamente una visione del tempo che non sarebbe spiaciuta a Italo Calvino.
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