È il 1989 e mentre tutti lo vorrebbero testimone della storia, ai piedi dei resti del muro di Berlino, Peter Handke si rifugia in una cittadina spagnola, in direzione opposta e contraria a provare a scrivere il suo Saggio sul juke-box che ha in mente da parecchio tempo. A Soria l’arte di procrastinare diventa l’elemento portante della scrittura stessa. L’unica guida sono i Caratteri di Teofrasto e l’idea di “percepire in forma narrativa” i frutti degli incontri, delle osservazioni, dei pensieri, dei ricordi e delle riflessioni che lo occupano nei suoi pellegrinaggi nella penisola iberica. Le “forme permeabili” della scrittura di Peter Handke lasciano il saggio al centro dell’ossessione e coltivano con scrupolo i margini. L’oggetto del contendere, il juke-box in sé, il Wurlitzer e/o il Seeburg, è avvicinato, circuito, ammirato per il design e, ovviamente, per la musica. La selezione di Peter Handke è giusta e raffinata: Van Morrison, Jacques Brel, Janis Joplin, Chuck Berry, Dion, Michelle Shocked, John Fogerty e, inevitabili, i Beatles e i Rolling Stones. I primi perché hanno permeato l’immaginario occidentale, i secondi perché Satisfaction è “la canzone che più di ogni altra era il simbolo di quel roboare del juke-box e fra le pochissime che per decenni avevano resistito (non erano state sostituite) nei juke-box di tutto il mondo”. Uno standard che però Peter Handke ascolta dalla radio di una corriera perché il juke-box è ormai estinto, così come, altrove tutto un altro mondo sta scomparendo. L’idea costante e coerente di sovrapporre la sua autobiografia al suo lavoro (che gli “corrisponde”) si traduce in “un insieme flessibile di forme di scrittura eterogenee”, utili a definire sia “immagini fuggevoli” che “sviluppi narrativi di più ampio respiro destinati tuttavia a interrompersi all’improvviso”, quando un’improvvisa (e allora, ancora, inspiegabile) epifania lo riporta alla realtà. Basta il ricordo di un juke-box in un ristorante su “un rilievo del Carso jugoslavo”. Sulle pareti, giusto per rendere l’atmosfera, oltre al “solito ritratto di Tito”, si trova la fotografia a colori di “uno sconosciuto: è l’ex-padrone che si è tolto la vita; la moglie dice che non era di quella zona (anche se magari del primo villaggio a valle)”. Una comitiva di studenti intona una canzone per tutti, gioiosa e divertente “cantata in un unisono fiero eppure allegro e innocente, e per un popolo, addirittura ballabile”. Facilissima da cantare perché il ritornello è composto da una sola parola: “Jugoslavija!”. Non serve aggiungere altro. Lì, sul finire, tra gli omaggi a Pier Paolo Pasolini e ad Antonio Machado, quasi a rendere conto delle autorizzazioni poetiche dei luoghi toccati da Peter Handke, il Saggio sul juke-box si rivela una sorprendente e acuta digressione sul tempo. Per comprenderla, schivando i continui diversivi di Peter Handke, è molto utile, nella postfazione di Rolando Zorzi, il richiamo a Se una notte d’inverno un viaggiatore, dove Italo Calvino dice: “La dimensione del tempo è andata in frantumi, non possiamo vivere o pensare se non spezzoni di tempo che s’allontanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono. La continuità del tempo possiamo ritrovarla solo nei romanzi di quell’epoca in cui il tempo non appariva più come fermo e non ancora come esploso, un’epoca che è durata su per giù cent’anni, e poi basta”. Nel juke-box di Peter Handke risuona Redemption Song di Bob Marley, ma la canzone appropriata sarebbe Time Will Tell: “Pensi di essere in paradiso, ma vivi all’inferno, oh, solo il tempo lo dirà”. Proprio così.
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