Questo piccolo oggetto del desiderio non è altro che la somma di due articoli scritti da Conrad all’indomani del naufragio del Titanic. Un evento che, come è noto, ha dato adito alle più disparate leggende, non ultima la tronfia e magniloquente prosopopea dei colossal hollywoodiani. Joseph Conrad, con un coraggio e un piglio polemico sorprendenti (è utile non dimenticare che scriveva nel 1912) le smonta una ad una, senza lasciarsi intimorire dall’enfasi e dall’alone tragico che hanno sempre circondato il Titanic. Anzi, l’intento dichiarato, fin dalle prime righe, è proprio quello di smentire, svelare, scoprire le verità possibili nascoste dietro la cortina fumogena alimentata da quei caratteri cubitali con “un’aria incongruamente festosa” che si levò sulla vicenda, dall’inizio alla sua misera fine. Da uomo di mare, Conrad si premura di evidenziare non solo le cause del disastro, le negligenze degli armatori, le paratie stagne incomplete, gli errori di navigazione, le scialuppe di salvataggio insufficienti, ma anche le lacune e gli abbagli delle successive inchieste istituzionali. Le osservazioni di Joseph Conrad sono pungenti, insaporite da un’ironia che spesso e volentieri sfocia nel sarcasmo, ma sempre attentissime al rispetto dovuto per le vittime del naufragio. Non di meno, lo sguardo critico va oltre l’esperienza da lupo di mare, e comprende per scrupolo e per attenzione) anche un’analisi impietosa delle motivazioni ultime dell’esistenza stessa del Titanic, dall’indifferenza della burocrazia alla leggerezza del mercato e di un fantomatico ideale di progresso. L’articolazione dei giudizi comincia proprio con il distacco dal proliferare dei luoghi comuni, che Joseph Conrad celebra così: “Si vivono, si imparano, si sentono cose davvero sorprendenti, cose che quasi non si sa come prendere, se sul serio o a scherzo, come trattarle, con indignazione o disprezzo. Cose dette da solenni esperti, da direttori esaltati, da bigliettai glorificati, da funzionari di ogni sorta”. Messi a nudo, uno dopo l’altro, tutti gli errori che hanno portato al disastro del Titanic su cui Joseph Conrad insiste, spesso e volentieri e fino alla fine, guardando un po’ oltre la punta dell’iceberg e tra le nebbie riesce comunque a riportare l’attenzione su una rotta andata persa molto tempo prima perché “sì, i materiali possono fallire, e anche gli uomini possono a volte fallire; ma gli uomini, quando ne hanno l’occasione, si rivelano spesso più affidabili dell’acciaio, quel meraviglioso acciaio sottile di cui sono fatti gli scafi e le paratie dei nostri moderni leviatani del mare”. Detto questo, un “cupo tocco di commedia” avvolge il Titanic e visto che mare e marinai, navi e navigazione, rotte e naufragi erano nella natura dell’autore almeno quanto la scrittura stessa, la conclusione non poteva essere meno livida e perentoria in tutta la sua chiarezza: “Non c’è nulla di eroico nell’annegare, contro la propria volontà, su un’enorme cisterna bucata, senza scampo, per la quale si è pagato il proprio biglietto, non più di quanto ve ne sia nel morire per una colica causata dal salmone della scatola difettosa comprata dal droghiere. E questa è la solita verità. La verità priva di sentimentalismo, spogliata dall’ambito romantico che la stampa ha intessuto intorno a questo disastro quanto mai inutile”. Straordinariamente attuale.
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