Quando ha intrapreso lo spericolato viaggio che l’ha portato a Natura morta con custodia di sax, Geoff Dyer ammise di trovarsi “in una posizione di notevole vantaggio perché ero costretto a improvvisare”. L’aderenza allo stile e all’essenza delle storie che andava scoprendo si è rivelata via via nella scelta di forme insolite e sfuggenti del racconto, ma anche nel lasciarsi andare verso ricostruzioni molto “free”. Natura morta con custodia di sax è un modo scaltro e brillante di leggere il jazz facendo attenzione alle singole personalità, che poi sono caratteristiche di un mood, di uno stile, di una vita. I protagonisti sono proprio loro, i musicisti, che Geoff Dyer ritrae attraverso una lente bifocale, un po’ dentro e un po’ fuori, tutti avvolti e connessi nel racconto on the road di Harry Carney, trombonista e autista di Duke Ellington, che funziona da anfitrione e compagno di viaggio: “Il carburatore è a posto, l’olio pure: quest’auto non ha bisogno di niente. Ha solo bisogno della strada”. Come se fosse rimasto incantato dal potere e dall’atmosfera delle fotografie, non meno della musica, il lavoro di Geoff Dyer è un passionale raccolto della wildlife dei jazzisti, a partire da una scelta tra i più tormentati, rissosi, irascibili, incontrollabili: Lester Young (“Suonava come se fosse lì lì per mollare tutto, pur sapendo che non l’avrebbe mai fatto: ecco da dove veniva la tensione”), Thelonious Monk (“Gli piaceva essere riconosciuto: non era tanto il sentirsi famoso, quanto un modo di allargare la sua casa”), Ben Webster (“Si portava dietro la solitudine come la custodia di uno strumento. Non se ne staccava mai”), Charles Mingus (“Non sapeva perché fosse fatto a quel modo, ma sapeva che doveva essere così e non altrimenti”) e poi Bud Powell, Chet Baker, Art Pepper, nonché Duke Ellington: “Era difficile che la musica gli venisse in mente già come musica. Tutto cominciava con uno stato d’animo, un’impressione, qualcosa che aveva visto o sentito e che soltanto dopo lui traduceva in melodia”. A grandi linee, è lo stesso processo processo che segue Geoff Dyer: riesce a reggere l’equilibrio tra la fiction, la ricostruzione storica e (persino) un po’ di critica musicale, proprio grazie alle caratteristiche dei protagonisti, ma anche alla curiosa forma, molto accattivante del libro in sé. Natura morta con custodia sax celebra la leggenda sporcandosi le mani, togliendo quell’alone di polvere e quella patina di intoccabilità ai jazzisti, rendendoli più umani, sofferenze, dolori e follie comprese nella giusta convinzione che “nel jazz le emozioni bisogna guadagnarsele perché è difficile suonare il sassofono con la tenerezza, continuare a tenere il ritmo e insieme strappare lacrime dal cuore. Sono emozioni che si pagano di persona: chi conosce la storia della musica sa cosa vuol dire”. Anche su questo non si è sbagliato: la struttura è molto libera e l’impasto delle voci che si sovrappongono a quella di Geoff Dyer tradisce una passione non comune e fa di Natura morta con custodia di sax un biglietto di sola andata per uno “stato costituzionalmente psicopatico, manifestantesi attraverso dipendenza da sostanze stupefacenti (canapa indiana, barbiturici), alcolismo cronico e tendenza a vivere senza fissa dimora… Problema puramente disciplinare”. In altre parole: jazz.
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