A poco più di vent’anni Gabriel García Márquez si ritrova a condurre una rubrica giornaliera in cui gli è permesso disquisire un po’ su tutto, dalle analisi riguardo L’importanza della lettera X alle notizie più spicciole e divertenti fino a conclusioni piuttosto lungimiranti quando scrive, nel maggio 1948, che “il nostro tempo lo riceviamo sprovvisto di quegli elementi che facevano della vita una giornata poetica. Ci è stato consegnato un mondo meccanico, artificiale, in cui la tecnica inaugura una nuova politica della vita”. Un’attenzione precisata in un articolo del mese successivo, dove mostra, anche nel ristretto spazio, di avere capito che “la gente di quest’epoca preferisce (preferiamo?) una pubblicità ingegnosa a tutte le parole di Pigmalione. Almeno, la prima ci lascia la soddisfazione di essere ingannati senza che ce ne rendiamo conto”. Gli Scritti costieri 1948-1952 sono ricchi di variazioni sul tema, dalla letteratura (Truman Capote, William Faulkner, Aldous Huxley, Sartre, Kafka) al cinema (Ladri di biciclette) fino al teatro, ma García Márquez scrive impunemente e con lo stesso entusiasta stile dell’autobus delle nove e dell’arte di fare colazione, del suicidio di Babbo Natale e delle possibilità dell’antropofagia, dell’amore tra tartarughe e tra gli esseri umani (perché “l’amore è sempre stato una piccola catastrofe”), della decadenza del diavolo e della peregrinazione della giraffa, di Candido e di Tarzan. Questa scintillante (e infinita) selezione giustifica quello che scriveva nel gennaio 1950: “Adesso, tuttavia, noi poveri normali vediamo arrivare con soddisfazione l’istante in cui ci sarà permesso, impunemente, di allentare le briglie alla nostra pazzia. Il carnevale ci permetterà di vestirci, di mascherarci nel modo che segretamente abbiamo desiderato durante i giorni normali. Così, vestiti come avremmo voluto esserlo sempre, saremmo stati trasportati in un sanatorio. Adesso no. Forse perché l’esercizio del diritto di essere matti è l’unico che ci permette di sentirci completamente naturali”. Eppure, anche nel suo variopinto balzare da un argomento all’altro, García Márquez non dimentica il ruolo (in qualche modo) istituzionale che occupa e se ne avvede così nel maggio 1950: “L’uomo della strada è, sicuramente, la persona che più preoccupa noi che scriviamo per i quotidiani. L’uomo della strada è uno, molteplice e contraddittorio, e non è solo d’accordo o in disaccordo, al contempo, su una stessa cosa, ma discute pure rabbiosamente con se stesso senza mai arrivare a una conclusione definitiva”. È un dato di fatto che costringe García Márquez a valutare in modo diverso la prolificità della usa rubrica rendendosi ben presto conto che “l’opinione pubblica, secondo l’opinione generale, è una signora che trascorre il tempo a dire qualcosa, pensando qualcosa di qualcosa, nella maggior parte dei casi, molto di niente o niente di molto, e il cui unico svago consueto consiste nel decifrare gli innumerevoli cruciverba oziosi che le offrono i quotidiani”. La grandiosità degli Scritti costieri 1948-1952 è anche il loro limite intrinseco nell’imprigionarlo in uno spazio e in una condizione che, per quanto soddisfacenti, non erano nemmeno lontanamente sufficienti per García Márquez. Quando per motivi famigliari si deve allontanare dalla rubrica, il caporedattore (e a sua volta scrittore) Héctor Rojas Herazo lo descrive così: “La temporanea assenza di García Márquez dalla sua incombenza quotidiana apre un vuoto fraterno in questa casa. Ogni giorno, la sua prosa trasparente, esatta, nervosa, si affacciava sul quotidiano trascorrere degli eventi. Sapeva, dall’eterogeneo cumulo di notizie, selezionare con l’innata eleganza del giornalista di razza quelle che, in basse alle loro possibili suggestioni, potevano offrire il miglior nutrimento ai lettori mattutini. Il suo stile si è imposto con rapidità nel nostro ambiente. A tal fine, possiede cultura e buon gusto, capacità veramente esemplari, grazie alla sua attività di scrittore di racconti e romanzi”. Ne stava già parlando al futuro.
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