Si fa presto a dire barbari. L’identificazione era usata, fin dai tempi di Platone, per tracciare una linea di demarcazione, una frontiera nei paesaggi mentali tra il conosciuto e l’incognito che stava oltre il confine. Il luogo comune voleva che, passati i margini della civiltà ellenica, tutti fossero barbari. Una precisazione geografica, più che politica. Nel corso dei secoli quell’idea, dato che “la consapevolezza dell’esistenza di altri stili di vita mette a disagio, dal momento che rappresenta una sfida alla modalità quotidianamente accettata e praticata senza porsi domande né dubbi”, è stata modellata per ogni scopo, per ogni obiettivo, primi tra tutti quelli economici e, di conseguenza, militari. Come precisa Zigmunt Bauman nelle pagine iniziali di questo breve saggio, intenso e molto attuale, “il concetto di barbarie durante la modernità è stato usato come strumento e giustificazione per la conquista del mondo. Fornì la foglia di fico per nascondere le orribili e vergognose atrocità dell’imperialismo e del colonialismo. Permise di ribaltare le responsabilità: spostare l’obbrobrio etico e la condanna morale degli assassini alle loro vittime. Tale ribaltamento fu forse il più ingegnoso tra i meccanismi creati e impiegati nella lunga tradizione della strategia di incolpare le vittime”. Tra barbari e barbarie c’è una certa differenza che non va più cercata lungo un’ipotetica linea d’ombra che segue frontiere invisibili. Chi erano i barbari nella prigione di Abu Ghraib? Chi sono i barbari a Guantanamo? Dov’erano i barbari mentre nell’Europa “civile e liberale”, come ricorda Enzo Traverso, diventava “il laboratorio delle violenze del ventesimo secolo”? Il libro di Zigmunt Bauman risponde a queste domande in modo lucido e sintetico. E’ un’analisi linguistica, antropologica, sociologica, storica e geopolitica condensata in sessanta pagine che seguono “lo spettro dei barbari” e ne comprendono a fondo l’evoluzione, fino ad oggi, perché “la barbarie ha smesso di significare una fase preliminare precedente all’avvento della civiltà per assumere quello della ritirata della civiltà, apparentemente già vittoriosa. Ha assunto il significato di una negazione e in generale di fallimento dell’ordine civile”. Il barbaro è ovunque e la barbarie è in agguato in modo subdolo: non si tratta di orde vandaliche ai margini dell’impero o di invasioni imprevedibili, ma di una regressione in cui a furia di ritenere inferiori tutti gli altri, per comodità, per utilità, si sono perse le naturali dinamiche della convivenza e stanno scemando anche le regole perché, come scrive Zigmunt Bauman, “nell’attuale fase storica della civiltà, la totale o parziale assenza, sospensione, pigrizia, indifferenza o volontaria inefficacia della legge (a prescindere che sia esercitata, intesa o minacciata), sta diventando uno dei modi più comuni con cui la legge si manifesta”. Per questo si parla di “spettro dei barbari”: è uno specchio deformato che rimanda la sua stessa immagine. I barbari sono gli altri, finché possiamo dirlo noi. Un ritratto micidiale dei nostri giorni.
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