Bisogna dire subito che non è il libro dei segreti e delle magie di Gabo e purtroppo non è neanche il libro prospettato dal titolo perché sarebbe stato più onesto e chiaro spiegare che il “racconto” di cui discutono Gabríel Gárcia Marquez e i suoi studenti, peraltro piuttosto solleciti e arguti, non riguarda, se non per vie traverse, la pagina scritta in bianco e nero, ma le immagini televisive a colori. La differenza, trattandosi di Gabo, non è esiziale perché al centro del laboratorio ci sono le tempistiche delle sceneggiature, i tempi di reazioni degli spettatori, i dettagli (visivi) che possono determinare la riuscita di un film. Tutta merce su cui Gabo disquisisce in libertà e, come è ovvio, con gran proprietà del mestiere sia che si tratti di spiegare gli elementi fondanti del lavoro della scrittura (“Bisogna imparare a scartare. Un bravo scrittore non si riconosce tanto da quello che pubblica quanto da quello che butta nel cestino della carta. Gli altri non lo sanno, ma chi scrive sa perfettamente ciò che butta nel cestino, ciò che scarta e ciò che conserva. Se riesce a scartare vuol dire che è sulla buona strada”), sia che serva definire dei contorni precisi (“Bisogna definire il genere sin dal principio. Non c’è niente di peggio di una commedia involontaria, cioè di quando uno è convinto di fare un dramma e gli viene fuori una commedia”). Da questo punto di vista, bisogna dire che Gabo è prodigo di consigli, suggerimenti, battute (“Il paradiso e l’inferno in realtà ce li portiamo dentro, non sono mai in un altro posto”) però bisogna andare a cercarseli, dato che tre quarti del laboratorio sono a disposizione degli studenti. Detto questo le opinioni di Gabríel Gárcia Marquez fioriscono su tutti gli aspetti del processo narrativo, dall’ispirazione iniziale (“Se si ha tra le mani una storia, non ci si può lasciar trasportare da idee che la contraddicano. O difendiamo le nostre storie, o cediamo alla tentazione di trasformarle in storie diverse”) ai suoi sviluppi ravvicinati (“Bisogna fare attenzione a non alterare gli aspetti essenziali della storia; il nostro compito è apportare delle idee affinché la storia risulti il più coerente e attraente possibile”), dalla caccia ai materiali (“Bisogna avere fede in qualsiasi immagine originale, che ti dica qualche cosa; se ti dice qualche cosa quasi sempre è perché racchiude qualcosa”) alla loro cernita (“Ciò che non serve non serve, bisogna eliminarlo quale che ne sia l’origine”) perché in definitiva “la ricerca è sempre utile. E’ cercando la storia che si scopre il metodo”. Nello specifico, Gabo si premura di avvertire che “non c’è vera creazione senza rischio, e pertanto senza una dose di incertezza” e d’altra parte la convivenza con una sconfitta è all’ordine del giorno, pur con l’ulteriore precisazione che “il fallimento deve avere una solida ragione drammatica, altrimenti perde senso”. Il consiglio più efficace dettato ai suoi allievi è applicazione, costanza, perseveranza che Gabo traduce così: “Non siamo qui per fare capolavori ma per imparare il mestiere, per vedere come si costruisce una storia immaginaria, chiodo su chiodo, martellata su martellata”. Poi, con grande umiltà, riparte di nuovo: “Ho una montagna di appunti. Vado a mettermi al lavoro”. Come si scrive un racconto? Nessun trucco, nessun mistero, una dedizione totale e una limpida coscienza delle possibilità finali, che restano sempre molto relative.
Nessun commento:
Posta un commento