Le voci accorate dei poeti nigeriani e dei loro corrispondenti italiani radunati da Wole Soyinka cercano di tracciare una rotta, o come dice Chiedu Ezeanah provano a “comporre l’esilio”, e a collegare due sponde divise da un mare, il Mediterraneo, che è diventato una frontiera, e un cimitero. Nell’introdurre le visioni, i versi, le immagini fotografiche di un intenso lavoro collettivo, Wole Soyinka è esplicito e lucidissimo nel sintetizzare il tema all’ordine del giorno: “La magnitudine del fenomeno delle migrazioni nell’età presente è un mero riflesso della regressione compiuta dal mondo in nome del progresso, dopo che ha foggiato strumenti di guerra e distruzione che adesso ci costringono a calcolare maree umane di profughi, nell’ordine delle centinaia di migliaia, dei milioni. È il riflesso della nostra incapacità di trarre i giusti insegnamenti dai paradigmi della vulnerabilità e del bisogno, manifestati in quegli archetipi i cui destini prefigurano la storia sempre uguale a sé stessa dello sventurato, del perseguitato, del reietto. Poiché è proprio questo mondo dell’inventiva diabolica a essere responsabile dell’aumento progressivo del fenomeno della migrazione di massa, che allora non si sottragga alla responsabilità di procurare alle proprie vittime bisogni elementari quali il rifugio e la protezione”. Percepire e raccontare le condizioni di uomini e donne “dispersi ai bordi della terra”, come li inquadra Milo De Angelis in Non rispondono all’appello, necessita di una meticolosa cernita delle parole, che devono schivare la retorica e provare a evidenziare le urgenze, le emozioni, il senso di smarrimento di viaggi attraverso il deserto e anelando un approdo in cerca di asilo, che resta un diritto inalienabile. Non di meno, nella sottile concordanza dei versi raccolti da Wole Soyinka, affiora la sensazione che, tolta la polvere disturbante della cronaca e della polemica, delle Migrazioni, come scrive Ubah Cristina Ali Farah in Aksum, “resta una cicatrice, aperta nel cemento, tracciata e cancellata di fronte alle colonie, la stele nella stiva, il mare brulicante”. Accalcati sui camion, aggrappati alle sponde di barche, in cammino con le masserizie, i volti bruciati, non è difficile individuare negli sguardi dei migranti quello che scrive Olufumni Aluko in Anime in pena I e cioè che “A tempo debito torneranno, loro è l’agonia dell’attesa”. È la poesia che arriva a dire, senza mezzi termini, come e quanto i profughi facciano traballare le ipocrisie, i luoghi comuni, le amenità che provano ad allontanare l’unica verità, che è quella spiegata da Richard Ali in Sospinti dal vento: “Le nazioni son solo menzogne, linee nella sabbia che il vento cancella per condurre l’umanità ad un unico abbraccio, e ci scopriamo uguali come un tesoro sotto i sussurri. Le parole esprimono rose rosse, lavoro, amore, mantengono le gioie finché vien meno il respiro, diventiamo unico vento insieme al resto”. Comprendere le Migrazioni è indispensabile tradurre queste frasi che sono l’espressione più emblematica di un drammatico momento storico, “poiché ora il fardello come il Mediterraneo scompare oltre l’orizzonte indifferente alla politica e a piccolezze del genere”. Lo scrive Uche Peter Umez in Corvi in volo ed è un piccolo epilogo dal sapore profetico.
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