Nei suoi dipinti, Priscila de Carvalho costruisce città che restano sospese in aria, con linee ferroviarie che si spezzano, elicotteri d’assalto che vagano in cerca di bersagli, grattacieli che arrancano disordinati nel cielo, scale contorte e tante piccole finestre illuminate. Uno dei suoi quadri, Off-Duty Militias, è al centro del rebus di Paradise City ed è una sorta di specchio magico con cui Joe Thomas ci lascia intravedere l’essenza di São Paulo. Fin troppo facile far notare le esplosive contraddizioni tra la verticalità dei grattacieli e le favela incastonate nel fango, il disperato (e ormai insostenibile) fabbisogno di case e la straripante ricchezza (e da lì, la corruzione) generata dal mercato immobiliare. È più interessante, nello svolgersi di Paradise City, rintracciare dentro le caotiche architetture di São Paulo quello che Lewis Mumford chiamava “un ambiguo rapporto con il futuro” e, ancora di più, quel “sistema anarchico e arcaico di segni e di simboli” alla fonte della comunicazione quotidiana, che poi è, in effetti, la sua trama. Massimo De Felice, sociologo che a São Paulo ha dedicato la sua analisi dei Paesaggi post-urbani cita un parola portoghese, “meio-ambiente”, per condensare il senso della megalopoli. La traduzione non è immediata, ma il significato è che “il territorio e la natura non solo non possono essere pensati semplicemente come realtà che ci sono intorno, ma devono essere considerati come elementi che ci costituiscono, come informazioni, sostanze e realtà materiali che risiedono, al tempo stesso, dentro e fuori di noi”. São Paulo è l’alfa e l’omega di Mario Leme, investigatore della polizia (civile) inseguito dal fantasma della moglie, Renata, che ha avuto la sfortuna di trovarsi in mezzo all’ennesima sparatoria tra forze speciali (militari) e trafficanti. La guerra strisciante nel territorio urbano non risparmia nessuno e Leme è annodato al cappio del ricordo di Renata che lo trascina giù, verso la favela di Paraisópolis alias Paradise City, dove lei (avvocato e attivista) aveva un piccolo baluardo di resistenza umana. In preda alla malinconia, Leme torna spesso in quell’angolo e, proprio lì, assiste ad un altro omicidio. Non una grande novità a São Paulo (“Alcuni giorni sopravviviamo senza un graffio. Altri, no”), solo che ordini superiori gli impediscono di indagare, anzi gli impongono di archiviarlo come incidente. I “sussurri” di Renata lo spingono invece a inoltrarsi in un labirinto borgesiano fatto di case vuote, porte che si aprono e si chiudono, edifici che collassano, donne che scompaiono, diseredati che vagano come spettri e autorevoli membri della comunità coinvolti in ogni possibile speculazione (economica e politica), seguendo “appetiti e istinti: nessun bisogno di riflettere sulle possibili conseguenze”. Leme ha solo due alleati, Lisboa (un collega molto più pragmatico di lui) e Antonia (di cui si innamorerà) per smascherare l’ipocrisia con cui sono resi presentabili volti che nascondono avidità, cinismo e una spicciola propensione a risolvere gli attriti con il ricorso sistematico all’omicidio. Di segnali (e di indizi), Leme ne trova in continuazione, perché si muove in un habitat che pulsa senza sosta, finché la rivelazione non gli arriva osservando dall’alto, ospite (in pericolo) di un lussuoso palazzo: “Da lassù, la realtà di São Paulo era esposta con chiarezza: una piaga di venti milioni di ratti che correvano e frugavano qua e là alla ricerca di cibo. Ground Zero. È quasi incredibile che i ricchi trovino il coraggio di scendere lì in mezzo di tanto in tanto”. Il finale, come i tratti visionari di Priscila de Carvalho, rimane in sospeso e si capisce che il lavoro di Leme è soltanto all’inizio. Piuttosto, merita una precisazione il titolo: Paradise City, che poi è la versione anglosassone di Paraisópolis deriva dalla canzone dei Guns N’ Roses, ma, vista la materia torbida e incandescente di São Paulo, forse era più appropriato Welcome To The Jungle.
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