Una città assediata che pagava a caro prezzo la sua straordinaria identità: come ricorda Tony Judt in Postwar, nella tragedia delle guerre balcaniche, la distruzione di Sarajevo è stato “un particolare motivo di dolore. Anche nelle sue ridotte dimensioni, la capitale bosniaca era realmente cosmopolita: forse l’ultimo dei centri urbani multietnici, multilingue ed ecumenici che un tempo erano stati il vanto dell’Europa centrale e del Mediterraneo orientale”. È l’epicentro di un tessuto lacerato mentre tutto intorno il mondo non riesce a credere ai propri occhi, o meglio, a quello che vede in televisione. Le cronache quotidiane sono uno stillicidio di sangue e l’impotenza di fronte a un massacro metodico diventa la più grande prevaricazione. Josip Osti parte proprio da una routine lancinante: “Appena apro gli occhi, ascolto le prime notizie, li chiudo, quando ascolto le ultime” anche se Le notizie da e per Sarajevo sono sempre peggiori ma a Ljubljana spunta una giornata serena e luminosa. I titoli sono già composizioni e riportano alle headline giornaliere: Il 27 maggio una granata è esplosa in mezzo alla folla che aspettava al centro di Sarajevo di ottenere del pane; per questo motivo una ventina di persone sono morte e il triplo sono rimaste ferite seriamente o più leggermente. Josip Osti è un testimone scomodo, la poesia è un’istantanea in grado di trasmettere l’idea che “Sarajevo è un disegno in bianco e nero” e già nella minimale distinzione cromatica netta “assomiglia a Guernica”. Non è l’unica associazione con la pittura, anzi: quando Josip Osti richiama Chagall e Magritte, ribadisce il tentativo di collocare il terrore, la paura in un contesto surreale dove “l’arte di sopravvivere è essere più veloci della pallottola o non corrergli incontro”. Mentre la cenere di pagine bruciate cade su Sarajevo al posto della neve, restano soltanto i ricordi a cui ancorarsi e mentre Josip Osti in Bandiera bianca ammette di aver “vissuto in un giardino di parole sotto un tetto di libri”, il tempo fugge come una marea e “di notte, i bambini sono invecchiati, gli anziani sono ritornati bambini, i bambini si sono seduti immobili e pensierosi, come i saggi, i vecchi invece che si ricordano dei giochi non terminati di una volta, non cessano di fare domande alle quali i bambini non sanno dare risposte esaurienti”. Quel passato è disintegrato dalle granate e ferito dai colpi degli sniper, un Vicolo cieco in cui “alcuni muoiono, altri rinnovano i ricordi”. L’ostinato tentativo di dare una chance alla normalità, anche se “Sarajevo è di giorno in giorno sempre più in fiamme” e “per le strade della città, durante il coprifuoco, passeggiavano anche le belve e i matti”, come scrive Josip Osti in Il tempo è meraviglioso ma gli abitanti di Sarajevo non si meravigliano più di niente, è destinato a rimanere solo un’estrema, dignitosa speranza. Josip Osti usa un’immagine crepuscolare per esprimere quella sensazione, accennando prima a Quanto più grande è la fiamma della candela tanto più piccola è la sua scura ombra delineata sul muro, per poi articolarla in modo più compiuto: “Bisogna credere a quelli che dicono che niente brucia sino all’indomani, bisogna credere (anche perché non rimane altro) che la logica della vita sottometterà la logica della guerra, che la gente tornerà alle piccole faccende quotidiane, ma a Sarajevo chi sopravviverà camminerà per le strade invisibile tra gli invisibili”. Finché in una Lettera a Kavafis, quasi confessandosi al grande poeta, si lascia andare: “Nella città assediata la gente, come nelle tue poesie, non sapeva cosa sarebbe stato di sé, senza i barbari, ma alla fine sapeva che non ci sarebbe stata alcuna salvezza”. L’unica opzione è nella Fuga dalla propria pelle, dal corpo fragile e vulnerabile, in cerca di rifugio nella poesia che “è tutto ciò che non è prosa della buia quotidianità, paradiso di questo e dell’altro mondo, tutto ciò che non è l’inferno di Sarajevo”. L’ultimo strillo è già un epitaffio: Non si sa chi sarà il vincitore, ma si sa già chi è lo sconfitto, e l’elenco dettagliato comprende “chi sta da quale parte, sotto quale bandiera, chi sta in città, chi sulle montagne intorno, chi è armato, chi è a mani nude, chi attacca, chi si difende, chi distrugge, chi pulisce le rovine, chi uccide, chi è ucciso, chi è il vincitore, chi lo sconfitto, nella lotta dei condannati a morte”. Quando su Sarajevo cala il silenzio, a Josip Osti resta la malinconica certezza che “hanno cambiato il mondo, ma non l’hanno compreso” e sembra proprio di sentire La voce dall’altra parte del muro che non esiste più avvertire di “non chiedere se questa guerra è realtà o un ricordo del passato”: la fine di una città, e di tutto un secolo.
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