Vita caotica e disperata, vicinissimo ad Apollinaire, poeta e narratore, Frédéric Sauser alias Blaise Cendrars è uno di quegli scrittori folli e arroganti che sembrano saltare fuori all’improvviso da un romanzo di Henry Miller. Nella sua esistenza ha fatto un po’ di tutto e quello che non gli è riuscito nella realtà è stato capace di inventarselo, con una verve cruda e visionaria nello stesso tempo. Diversamente in La mano mozza non ha proprio dovuto immaginarsi nulla: il libro è uno dei resoconti più spietati e coraggiosi della prima guerra mondiale e, nello specifico, dei fronti dell’Artois e della Champagne. Un diario particolareggiato dove Cendrars non risparmia il minimo dettaglio, quasi a voler lasciare impresse sulla carta le esperienze che quotidianamente viveva in trincea. Senza alcuna traccia di retorica, con uno sguardo lucidissimo nel vedere gli effetti devastanti che “l’arte militare” produce sulla civiltà, o su quello che ne resta: “Contemplavo costernato quell’alba livida e il suo spoglio nel fango. Non c’era nulla di solido nel paesaggio sgocciolante, misero, sconvolto, sbrindellato, e io stesso ero lì come un accattone sulla soglia del mondo, inzuppato, invischiato e spalmato di merda da capo a piedi, cinicamente felice di trovarmi in quel luogo e di vedere tutto ciò coi miei occhi. M’affretto a dire che la guerra non è per niente bella e che, specie per quanto ne può vedere uno che v’è immischiato dentro come semplice esecutore, uomo sperduto nei ranghi, matricola tra milioni d’altre, è fin troppo stupida e non sembra obbedire a nessun piano d’insieme ma al caso”. Nemici che vivono ad un passo, ufficiali che si nascondono spaventati, paesi rasi al suolo, vino e sangue che si mescolano in un tempo che sembra non passare mai. Nell’intervallo tra un attacco e l’altro, tra un bombardamento dell’artiglieria e le scariche delle mitragliatrici, confusi da ordini tanto folli quanto perentori, gli uomini diventati soldati cercano in tutti i modi di ricucire brandelli di vita, mentre lottano con i pidocchi, resistono al freddo e alla fame, e attendono un destino ineluttabile, che hanno già visto nel monotono ripetersi di giornate tragiche. Cendrars è sempre meticoloso, attento e dolente nel riportare ogni distinto episodio e altrettanto crudo e lapidario nel raccontarlo: “Quando si sono vissute cose simili, chi ci crede più agli slogan degli strateghi. Si mangia la foglia. L’arte militare è briga da vecchie soldatacci incalliti nel mestiere. Uno sporco trantran. Marcia e crepa. E noi marciavamo. E noi crepavamo”. Lui, volontario come tanti, ne uscì vivo, ma La mano mozza del titolo è proprio la sua, visto che perse il braccio destro in seguito alle ferite riportate durante un assalto. Eppure, senza un minimo di autocommiserazione, ha raccontato la guerra come pochi altri hanno saputo fare, sfidando il cinismo di una cronaca diretta, gergale, allineando uno dopo l’altro (certo, “fu un bel massacro”) le storie dei compagni caduti sul campo “tutti morti, tutti caduti, crepati, spappolati, annientati, smembrati, dimenticati, polverizzati, ridotti a zero, e per niente, e che cantavano perché si cantava molto nella squadra”. Come se volesse dargli ancora un po’ di vita: per quanto popolata da fantasmi, paure, incubi, La mano mozza è un florilegio di umanità a cui soltanto la folle libertà di Blaise Cendrars poteva prestare una voce.
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