A sessantacinque anni, Cass Wheeler decide di affidarsi ancora alla musica e, nel giorno della presentazione del suo Greatest Hits, rivive ogni pagina di un diario emozionante e doloroso. Aveva cominciato ascoltando “Bob Dylan. I Beatles. I Kingsmen”, poi Rolling Stones, Fleetwood Mac e Beach Boys. La magia scaturita da quei dischi era che “la sua urgenza, il suo frenetico frastuono, sembrava essere l’unica cosa in grado di scuoterla e di farle sentire qualcosa”. Una passione intima, preziosa, perché la musica “era vera, reale e rispondeva solo alle proprie regole”, e l’ha aiutata a superare la fuga della madre e la depressione incalzante del padre. Sulle corde delle chitarre e attraverso le canzoni, Cass ha trovato anche la complicità e l’amore di Ivor Tait, a sua volta cantante e chitarrista che diventerà partner sul palco e nell’avventura discografica nonché suo marito. Cass Wheeler è ottenuta da un assemblaggio di Joan Baez (la fonte d’ispirazione principale), Carol King, Carly Simon, Judy Collins, Sandy Denny (“che teneva in pugno il pubblico in quel locale a lume di candela”) e (forse più di tutte) Joni Mitchell, ma a guardare bene ci starebbe anche un piccolo accostamento con Linda e Richard Thompson. Lo stile è originato dal folk si evolve dentro il pop, dalla bucolica campagna inglese alla Swinging London, e da lì via nella rivisitazione dell’aura dell’epoca con le droghe e le promiscuità, le trasformazioni e le mode, i viaggi e i tour in America, l’evoluzione dell’industria discografica e della tecnologia , con gli alti (e soprattutto) i bassi, senza “nessuna crepatura o spostamento improvviso, nessuno schianto né caduta, ma un processo di cedimento lento e graduale, il bello che si trasforma in brutto e la luce che finisce per scivolare nel buio”. Il tono scelto da Laura Barnett è lineare, accomodante, senza particolari pretese stilistiche, semplice e con una leggerezza ideale per passare attraverso le forche caudine dello show biz e negli anfratti più dolorosi della vita. Usa con disinvoltura i luoghi comuni e i cliché di cui si nutrono i meccanismi del pop, facendoli diventare altrettanti passaggi nel raggiungere la formazione del Greatest Hits che diventa così una retrospettiva della vita e non soltanto della produzione musicale di Cass Wheeler. Mentre l’antologia prende forma nel soggiorno della sua casa, attorniata soltanto dall’inner circle più fedele e rispettoso, e con un bicchiere di vino in sospeso, Cass Wheeler si accorge di aver vissuto una simbiosi costante su un filo di rasoio: la musica offre tutto, ma prende tanto, e a lei rimane sempre un vuoto, una lacuna, una ferita. La sua personalità è fragile e tenace nello stesso tempo: ha saputo superare ostacoli brutali, ma non riesce a districarsi dalle ombre e, nel giorno del Greatest Hits, ammette che “un senso, in questa vita vertiginosa, esasperante, impossibile e meravigliosa, non si può davvero trovare; come, certo, neanche al suo apice, al suo crescendo, nella sua fatidica perdita”. Non di meno, proprio grazie alle canzoni, Laura Barnett riesce a generare una certa armonia tra la cantautrice e la sua vita privata: dove un equilibrio resta abbastanza improbabile, nei temi evocativi e/o introspettivi (interpretati nella realtà da Kathryn Williams in Songs From The Novel Greatest Hits) vanno cercate le corrispondenze di un’autobiografia travagliata, spesa tra l’idea di cogliere ogni opportunità verso il successo e d’altra parte all’inseguimento di una fugace felicità. Allo scadere del giorno del Greatest Hits, “tre minuti a mezzanotte”, ecco l’epifania (e il dilemma) nella notte inglese: c’è un prezzo da pagare, ma per capire se ne vale la pena (oppure no) bisogna arrivare fino in fondo.
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