Elvis, la fede, le droghe, la televisione, i successi, le sconfitte: nella biografia di Johnny Cash, Steve Turner lavora sull’essenziale, lascia scorrere e semplifica dove serve e dove è necessario e tutto in funzione del racconto che è diretto, puntuale e senza inventarsi nulla di trascendentale, che di richiami ce ne sono già abbastanza nella vita di Johnny Cash. È così che Steve Turner traccia un profilo credibile, di sicuro un buon punto di partenza per eventuali approfondimenti, e una storia dallo svolgimento pratico e godibile. Comincia dalla fine, cioè dalla morte della moglie, June Carter, ma poi il percorso si fa piuttosto lineare, senza particolari scossoni. L’inizio al contrario è l’unica eccentricità che si concede Steve Turner: la ricostruzione è fedele, dettagliata quanto basta e ricca di testimonianze, che poi offrono un ritratto particolare e sono il valore aggiunto in più. I ritratti convergono pur provenendo da fonti diverse. Diceva di lui il musicista e produttore Jack Clement: “Lo chiamerei una grande entità musicale. Era una forza musicale e un grande cantante. La gente credeva in ciò che lui cantava. Pochi riconoscono nella voce uno strumento che deve fondersi con gli altri. In qualche modo Cash lo capiva. Soprattutto perché non gli importava. Lui cantava e basta. In qualche modo funzionava”. Da un altro punto di vista, comunque convergente, gli fa eco Kris Kristofferson: “Sono certo di aver imparato da John la coscienza sociale. Ho imparato a preoccuparmi per i fratelli e per l’indipendenza: fare ciò in cui credi nonostante quello che ti dicono gli altri. Ammiravo il modo in cui parlava con parole sue. Non potevo certo imitarlo, perché era unico come un fiocco di neve”. All’ultima parte dell’esistenza di Johnny Cash è dedicato un ampio spazio, come è giusto che sia, al rapporto con Rick Rubin e alla produzione degli American Recordings, che illumina uno dei momenti più alti e originali della canzone d’autore americana degli ultimi anni. La storia è declinata in tutti i dettagli, dal primo incontro tra quelle che sembravano due personalità agli antipodi allo sviluppo della serie. Anche qui, l’aspetto musicale viene superato dalla personalità di “the man in black”, come raccontava Rick Rubin: “Johnny Cash è sempre stato un fuorilegge, una figura che non rientrava nei canoni. Lo consideravano un artista country, ma non credo che l’ambiente del country l’abbia mai accettato davvero. Era un outsider, e credo sia stato questo ad attrarmi più ogni altra cosa”. E parafrasando il titolo di Unearthed, il box degli American Recordings pubblicato postumo, giusto a due mesi dalla sua scomparsa, Steve Volk descriveva Johnny Cash come “un colono che ha scavato nella terra, ha scoperto se stesso e ha scoperto noi”. Alla fine deve ammetterlo anche Steve Turner: “Come per tante leggende della musica popolare, non è facile dire esattamente cosa rendesse grande Cash. Non divenne mai un grande chitarrista, la sua voce aveva un’estensione limitata e i testi delle canzoni oscillavano dal poetico al prosaico. Ma la combinazione di quella voce, quelle parole e quella chitarra superava di molto la grandezza di ogni singolo elemento. Era una presenza, una forma di energia, un veicolo di verità”. Per conoscerlo (o riscoprirlo) si può cominciare da qui.
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