“It’s the economy, stupid!” era lo slogan della campagna elettorale che portò all’inaspettata vittoria di Clinton del 1992. È sempre l’economia, che non cambia mai, e Enzensberger l’aveva già capito dieci anni prima, con questa raccolta di articoli che risale al 1982, ma mantengono intatte le loro peculiarità. La lucidità di Enzensberger è tale da imporre una riflessione, anche in un ordine non proprio rigoroso, come è la composizione di In difesa della normalità. Rigorosa è piuttosto l’analisi, che arriva puntuale e trasparente. Enzensberger infatti usa un tono pratico per spiegare sistemi complessi, con molta ironia e uno spiccato senso dell’ironia e del paradosso. Del resto avvisa ben presto, con un pizzico di arguzia, il tenore della sua formazione: “A scuola non ci sono mai andato volentieri. Però ho sempre imparato volentieri qualche cosa di nuovo”. L’ordine in cui sono composti i saggi comincia con una severa valutazione e identificazione delle condizioni del sottosviluppo che nella loro progressione conducono, inevitabilmente a riflettere sui meccanismi finanziari che regolano le relazioni economiche. Era già chiaro, allora, che qualcosa non andasse e Enzensberger non lo manda a dire: “Infatti, l’ho sempre sospettato. Ma è una consolazione? Che l’economia non sappia quello fa: che in modo del tutto naturale, come la gallina fa coccodè e la zanzara punge, guadagni danaro addirittura in seguito a bancarotta, mi risulta già sufficientemente strano; che però i governi dei più importanti paesi del mondo fondino la loro economia sul principio della mosca cieca, trovo sia preoccupante”. Per naturale estensione, il giudizio sui governanti è altrettanto lapidario: “Perché i nostri politici non hanno bisogno di farsi venire delle idee. Ottengono gratis tutto quello di cui necessitano: soldi e pubblicità. I partiti si sono lottizzati tra loro la vita pubblica e hanno criminalizzato le frange riluttanti. Dappertutto si sente il loro familiare odore di stalla. Il desiderio di rimuovere il letame sembra utopico”. I punti di vista convergono con decisione quando, parlando della Germania (casa sua), dice: “Dopo trent’anni non sarebbe forse una cattiva idea analizzare la ricchezza sociale e le sue conseguenza con obiettività e senza i consueti contorsionismi. Non dovrebbe essere difficile. La questione ha l’aria di esser prossima alla fine. Nessuno che abbia aperto una volta un atlante o una Bibbia può stupirsene. Che la ricchezza sia sempre l’eccezione e mai la regola lo sapeva già il grande Salomone: una condizione estremamente improbabile, del tutto transitoria, una stravaganza storica sulla cui continuità può contare solo chi crede nei miracoli. Altri si consoleranno riflettendo sulla caducità dei nostri costumi. Personalmente non penso che la sazietà sia più pericolosa della fame. Comunque, non esageriamo! Non siamo ancora al limite di guardia con la nostra ricchezza, questa effimera dura a morire! Il fatto di passarcela a tutt’oggi discretamente bene è un destino che dovremmo sopportare con un certo distacco e un pizzico di ironia”. La conclusione di Enzensberger spiega come la “difesa della normalità” ci si avvalga di strumenti istintivi, compresa una strisciante regressione, perché “rifiuto è già dire troppo. Si tratta piuttosto di una volontà di non sapere speciale, collaudatissima, di una finta percezione, di un metter dentro e fuori parentesi quasi ironico, di una silenziosa riserva mentale che in fin dei conti è infrangibile”. È una forma di autodifesa, passiva finché si vuole, ma che pare ineluttabile quando tutti i fattori (economici e politici) spingono a sentirsi “fuori posto”. Molto chiaro, molto utile.
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