Frasi sparse in prima, seconda e terza persona, citazioni, progetti, note di viaggio, diari e impressioni delle letture o dal cinema, riflessioni e descrizioni, tematiche da ampliare, buchi da riempire, righe da trasformare, segnalazioni quotidiane, forme di pensiero, assoluti (“Affrancarsi dai bisogni più recenti. Ne dipendiamo come tutti gli altri, e non per i bisogni in sé”), tempo bloccato in forma di parola, riscoperte di poesie come scavi nel tempo e romanzi come quadri generali, del passato o del futuro, strumenti di comunicazione dentro e attraverso gli anni, parole scritte sui bloc notes da quattro soldi, storie da registrare e chiavi di lettura, perché “chi legge se stesso, ha un’altra esistenza, fuori dallo specchio”: lo spirito di Un regno di matite è quello dichiarato nelle prime pagine, ovvero “quando i pensieri corrono, lasciali correre”, e qui si va di fretta, senza aggiuntivi o riempitivi e nello stesso modo Elias Canetti celebra l’assioma per cui “si scrive, per essere diversi. Chi imbroglia scrivendo rimane ciò che comunque è”. Un regno di matite è un’antologia di piccoli frammenti, aforismi, residui e appunti che però, anche in un quadro del tutto disarticolato, formano un tracciato in cui si incontrano, tra gli altri, Kafka, Karl Kraus, Kant, Joyce, Robert Walser, Blake, Hegel, Shakespeare, Goethe, spesso liquidati con una battuta (“Se fossi Freud me la darei a gambe”), ben sapendo che “la vera lode è lo stupore”. Ma Un regno di matite è anche un dialogo con se stesso (“Rinfrancarsi con i diari. Come la si conosce questa gentaglia, se stessi”) e con l’attualità. Intorno alla guerra in Bosnia, Elias Canetti scrive, insieme al ritratto impietoso di Radovan Karadzic, l’epitaffio del ventesimo secolo: “Bisogna domandarsi come sarebbe stato possibile sopravvivere a questo secolo senza le sue speranze. Per me è incominciato con la guerra balcanica (1912) ed è rifluito, ottant’anni dopo (1992) nella guerra balcanica. Come capacitarsene? Dipenderà da una legge? Eppure, in mezzo, ci sono due conflitti mondiali”. In Un regno di matite prendono forma tutte le “ossessioni che rendono completo un uomo, che lo sostengono come un’ossatura di cui non lo si potrà mai privare. Ossessioni che vanno perfino contro la comprensione di tutti, per quanto se ne parli la lingua e si rimanga intelligibili a dispetto di ogni apparente assurdità, incrollabili, ma anche incrollabilmente chiari. Di più da sé non si può pretendere, di meno sarebbe deplorevole”. Il tratto è personale perché secondo Elias Canetti “in una biografia deve esserci molto da decifrare e indovinare, e le presunte soluzioni devono potersi anche rivelare errate. Alcuni aspetti occorre siano disposti in modo tale da rimanere per sempre occulti. Ogni intromissione pretenziosa e fuorviante farà i conti col ridicolo. Una biografia è misteriosa come la vita di cui parla. Una vita esplicita non è stata una vita”. E qui, di conseguenza, Elias Canetti si concede alcune note autobiografiche (“Non ho mai concluso una pace meschina. Non sono mai affogato tra le chiacchiere. Ho custodito in me il sapere duro, insostenibile”), un suggerimento per assecondare il senso ultimo della memoria (“Bisognerebbe ricominciare l’infanzia da capo. Ci sono molte infanzie, la maggior parte va dispersa”) e per rendersi singolari (“Restare indietro, sempre, non assecondare mai quanto al momento è in voga. L’effetto ritardato è tutto, il recupero differito del tempo”) senza dimenticare quello che è probabilmente il consiglio più azzeccato: “Occorre l’onestà di chiamare per nome il limite contro il quale abbiamo urtato”. Dovrebbe bastare così.
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