Tra la Western Avenue e le derivazioni della M4, l’autostrada che porta l’aeroporto di Heathrow, le direzioni di viaggio si confondono, Londra resta un agglomerato indefinito alle spalle dove “il matrimonio tra ragione e incubo” viene celebrato in un’esplosione di luci abbagliante. Appena fuori dal perimetro invisibile della metropoli, nel rapido flusso degli automezzi e degli aerei “l’enorme energia del ventesimo secolo, sufficiente a spingere il pianeta in una nuova orbita attorno a un astro più felice, veniva così spesa per mantenere quell’immensa pausa immota”. Lo spazio, la velocità, il tempo sospeso tra un guard rail e l’altro, conducono Crash in una continua triangolazione tra l’architettura dei collegamenti suburbani e le curve degli accoppiamenti: Robert Vaughan, che è un “angelo ossessivo delle superstrade” e lo stesso Ballard, che si presta come personaggio nel riflesso del protagonista, inseguono frammenti di vita e di morte sull’asfalto, coinvolgendo Catherine, Renata, Helen, Gabrielle nonché Liz Taylor. Nel vortice senza tregua di acrobazie erotiche e lamiere contorte, le immagini di Crash fluttuano come “un’emorragia del sole”. L’indifferenza di Vaughan alle fatali conseguenze di atti di insensata logica costringono Ballard ad ammettere che “i suoi atti di violenza erano ormai diventati tanto imprevedibilmente casuali da lasciarmi in pratica nella condizione di spettatore prigioniero e nulla più”. La constatazione, poco amichevole, è che “viviamo in un mondo quasi infantile, nel quale può trovare istantanea soddisfazione ogni domanda, ogni possibilità, si tratti di stili di vita, di viaggi, o di ruoli e identità sessuali”. Si tratta di “un sistema di ammiccante violenza ed eccitazione”, dove l’immaginazione è costretta dentro uno schermo, uno specchio, un obiettivo e la realtà, come disse Ballard in un’intervista, si presenta come “un mondo transitorio”, un prodotto della “dipartita della facoltà emotiva” che Crash sublima con una scrittura chirurgica e spietata: collisioni e amplessi sono visti attraverso una lente maniacale con ogni particolare che diventa a sua volta un disturbante diversivo per evidenziare il “reame di violenza e tecnologia” in cui proliferano i cervelli di Ballard e Vaughan. Non è facile capire chi è l’alter ego di chi: Ballard si accorge che “per la prima volta una psicopatologia benevola ci chiamava ammiccando: una psicopatologia che aveva il suo tempio nelle decine di migliaia di veicoli in movimento sulle autostrade, nei giganteschi reattori di linea in volo sopra le nostre teste, nelle più umili strutture stampate e nei più umili laminati commerciali”. È come entrare in un raccordo autostradale senza uscite, un labirinto di allucinazioni, che si moltiplicano all’infinito tra profili meccanici e membra umane. Ballard è un voyeur che va oltre il voyeur: indaga il corpo e l’automobile, le espressioni e i bersagli principali della pubblicità, e non a caso sia lui che Vaughan sono ingranaggi nei meccanismi perversi della televisione. Nel dissezionare “queste potenti fusioni di finzione e realtà”, Ballard richiama Kennedy, Picasso, Camus, convitati a concepire un romanzo come “una metafora estrema per una situazione estrema, un corredo di misure disperate cui ricorrere solo in momenti di crisi estrema”. Crash è un “trauma di sogni” ed è un romanzo spietato e compulsivo che legge dentro e attraverso i nostri tempi, anche a distanza di mezzo secolo, perché come ha detto Ballard, noi esseri umani “abbiamo un immaginario molto più cupo di quanto ci piaccia pensare. Siamo retti dalla ragione e dal tornaconto personale, ma solo quando essere razionali ci conviene, e per buona parte del nostro tempo scegliamo di essere intrattenuti da film, romanzi e fumetti che dispiegano un livello di crudeltà e violenza davvero impensabile”. Uno straordinario sguardo nell’oscurità del futuro e di sempre.
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