Il ritratto di John Sassall, medico condotto in the middle of nowhere, è, comprese le fotografie di Jean Mohr, uno sguardo ravvicinato al corso della vita in un ambiente bucolico e impenetrabile, racchiuso su se stesso e, in qualche modo, autosufficiente, che John Berger celebra e definisce già nell’incipit di Un uomo fortunato: “I paesaggi possono essere ingannevoli. A volte si direbbe che un paesaggio non sia tanto lo scenario della vita dei suoi abitanti quanto un sipario dietro il quale hanno luogo le loro lotte, le loro conquiste e le loro disgrazie”. A St Briavels nel Gloucestershire, non lontano da Bristol, nella profonda campagna inglese i residenti sono un riflesso del territorio e sono “duri, rassegnati, modesti, stoici”. I luoghi, non meno delle esigenze quotidiane comportano che “il concetto di resistenza è fondamentalmente assai più importante della felicità”. Nella piccola comunità ci si accontenta di poco: un lavoro modesto, una serata al pub, quel minimo per cui “qualunque cultura generale opera come uno specchio che consente all’individuo di riconoscersi, o perlomeno di riconoscere quelle parti di sé che sono socialmente ammissibili”. In questo ristretto habitat, John Sassall svolge il suo compito seguendo “l’ideale del servizio” ed è nella complessità del rapporto con il paziente (e malattia, e morte) che John Berger approfondisce con lunghe ed elaborate digressioni tutto un ordinamento di riflessioni sulla sua personalità e sulla sua missione, compresi i contrasti, le distanze, le differenze con i “boscaioli”. Pur nella condizione provinciale e circoscritta, John Sassall “è riconosciuto come un buon medico perché risponde alle aspettative profonde, ma non formulate, del malato di un senso di fraternità”. Non dispensa soltanto diagnosi e medicinali, punti di sutura o sciroppi: cerca di capire chi è arrivato nel suo ordinatissimo ambulatorio, cosa l’ha portato lì. È “meticoloso”, “gentile”, “comprensivo” e sembra sapere che “la consapevolezza della malattia è parte del prezzo che l’uomo ha pagato per primo e continua a pagare per la sua coscienza di sé”. Il suo afflato ricorda l’uomo di medicina primitivo che, come puntualizza John Berger, “era spesso anche sacerdote, stregone e giudice”. È protagonista di una profonda dicotomia perché se “il suo senso di padronanza è alimentato dall’ideale di perseguire l’universale”, rimane avvolto da una coltre di insoddisfazione e da un senso di inadeguatezza che l’esercizio della professione, per quanto svolto con ammirevole solerzia, non riesce a risolvere. Scriveva nei suoi appunti: “La tragedia fondamentale della situazione umana è non sapere. Non sapere che cosa siamo o perché siamo, con certezza”. Il dilemma, che pare coinvolgere anche le gradazioni di bianco e nero nelle inquadrature di Jean Mohr, si articola in tutta la “storia di un medico di campagna” che John Berger riassume così: “Sassall è nondimeno un uomo che fa ciò che vuole. O, per essere più precisi, un uomo che persegue ciò che desidera perseguire. A volte la sua ricerca comporta tensione e sconforto, ma di per sé è la sua unica fonte di soddisfazione. Come un artista o come chiunque altro creda che il proprio lavoro giustifichi la propria vita, Sassall, secondo i miserabili standard della nostra società, è un uomo fortunato”. La valutazione è ambivalente nelle implicazioni dirette e indirette perché nelle sue condizioni “può sembrare che controlli il tempo, come, in certe occasioni, il navigatore sembra governare il mare. Ma tanto il medico quanto l’uomo di mare sanno che si tratta di un’illusione”. Questo è il groviglio strutturale di Un uomo fortunato e la crisi strisciante, umana molto umana, di John Sassall avrà un risvolto tragico a cui John Berger riserva una brevissima nota, con discrezione, come se non volesse disturbare.
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