martedì 23 settembre 2025
Frode Grytten
mercoledì 17 settembre 2025
Rolf-Ulrich Kaiser
Guida alla musica pop è un libro del 1969 (aggiornato poi nel 1970) con tutte le fibrillazioni ideologiche dell’epoca e con i limiti fisiologici e anagrafici, ma contiene molti elementi dissonanti e non allineati che restano ancora meritevoli. I processi di identificazione che “il suono diventato comunicazione, gioia, unione, solidarietà” aveva avviato e quelli di “standardizzazione” di “una musica straordinariamente sincera, che aveva a che fare con la vita dei musicisti e con la nostra” sono le componenti principali dei tentativi di Rolf-Ulrich Kaiser di comprendere le metamorfosi del pop e del rock’n’roll che “non si limitò a essere una nuova moda musicale ma divenne uno strumento d’espressione della generazione giovane”. L’urgenza di dover capire e spiegare quello che stava succedendo proprio mentre accadeva è foriera di valutazioni sommarie. Non senza una qualche ragione: gli anni indagati dalla Guida alla musica pop vanno dal 1964 al 1969, con una coda all’anno dopo, e sono affollati di fenomeni rapidi e complessi. In ordine sparso e non esaustivo: l’ascesa e la caduta dei Beatles, le innovazioni negli studi di registrazioni da quattro piste fino a settantadue e l’introduzione del sintetizzatore, l’illusione e la truffa (televisiva) dei Monkees, i Grateful Dead e il sound di San Francisco, la percezione di Woodstock, divergente rispetto alla versione ufficiale di “tre giorni di pace, amore e musica”, sono alcuni degli argomenti che Rolf-Ulrich Kaiser sviscera con interpretazioni appassionate e convinte, ma spesso indeterminate. Pur comprendendo che la circolazione delle informazioni di quegli anni non era nemmeno lontanamente paragonabile a quella dei decenni successivi (per non dire di oggi), Guida alla musica pop si sviluppa in modo strambo: i ritratti nelle schede degli artisti e dei gruppi sono un po’ sbrigativi e la parte centrale è occupata da un lungo intervallo nell’abituale forma dell’intervista a Frank Zappa, le cui idee sembrano collimare con quelle di Rolf-Ulrich Kaiser: “Vogliamo contribuire a creare una coscienza politica nella gente. La maggior parte dei giovani americani non pensano in modo politico. Hanno troppo tempo libero, e tutto ciò che sanno fare è divertirsi. Sarebbe già una bella cosa se riuscissimo a indurli a riflettere”. Guida alla musica pop sottolinea spesso come dietro i dischi e i concerti e le canzoni ci fosse “un’irruente volontà di cambiare le condizioni nelle quali eravamo cresciuti” verso “una nuova forma esistenziale senza repressioni”. Un’utopia ribaltata dai processi dell’industria discografica che Rolf-Ulrich Kaiser stigmatizza così: “La canzonetta è adoperata come merce per l’umiliazione dell’uomo. Però il carattere di merce non la rende neutrale dal punto di vista del contenuto di valore. Infatti si smercia una cosa alla quale si attribuisce un contenuto valido. La musica leggera è il voluto inganno, la voluta interdizione dell’ascoltatore”. A saldo del linguaggio, le considerazioni restano legittime perché se, come diceva Mick Farren “la musica pop è uno degli ultimi strumenti liberi”, banalizzarla significa, nei fatti, ridurla ai minimi termini e renderla inoffensiva, se non del tutto inutile. È il motivo per cui Rolf-Ulrich Kaiser conclude, non senza un accenno di amarezza: “Nel 1970 ho sentito meno dischi che negli anni precedenti. Ho voluto sentire meno dischi, perché per la maggior parte non si rivolgevano a me come ascoltatore, ma come compratore”. Rileggere oggi Guida alla musica pop è come maneggiare un reperto archeologico con tutti i suoi spigoli e le sue fragilità, ma anche con una sua onestà e, comunque poi, assicura Rolf-Ulrich Kaiser, da qui, “possiamo imparare qual è la musica di cui si può fare a meno”, e questa, se non altro, è ancora una cernita indispensabile.
martedì 16 settembre 2025
Pavel Nilin
venerdì 12 settembre 2025
Mike Marqusee
lunedì 28 luglio 2025
Reinhard Kaiser-Mühlecker
venerdì 25 luglio 2025
James Pettifer
venerdì 18 luglio 2025
Hervé Muller
venerdì 9 maggio 2025
Julia Deck
lunedì 24 marzo 2025
Fabrice Tassel
venerdì 21 marzo 2025
Graham Swift
lunedì 17 marzo 2025
Samantha Harvey
Orbital un’esperienza di scrittura rarefatta come l’atmosfera nello spazio, senza un dialogo, anche se non mancano le divagazioni perché ognuno dei viaggiatori quando guarda verso la terra ricorda legami, incontri, storie. Nella stazione orbitante il tempo collassa, non meno degli spazi, e non c’è equilibrio tra le limitatissime possibilità all’interno dell’involucro aerodinamico e quelle infinite e misteriose dell’universo, là fuori. Nell, Pietro, Chie, Roman, Shaun, Anton “all’improvviso dimenticano il loro ruolo di astronauti e provano la sensazione fortissima di essere tornati piccoli, all’infanzia”. Dall’alto devono seguire un tifone che imperversa sull’oceano Pacifico, pensano ai Voyager, le sonde spaziali ormai giunte ai limiti della loro missione, cercano di convivere con le emozioni e le piccole necessità di un’unità asettica, sapendo in fondo che, alla pari della strumentazione di bordo, “non sono altro che un ammasso di dati, fondamentalmente. Un mezzo e non un fine”. La condizione è aleatoria e contraddittoria, le orbite si estendono sulla terra una dopo l’altra, e frugare nello spazio, ovvero proseguire con “la ricerca del vuoto” è un’impresa improba, se non proprio inutile, al punto di convincersi che gli esseri umani siano “qualche scintilla di pietra focaia più avanti rispetto al resto, tutto qui”. L’effetto è ipnotico, ma anche straniante, come se, orbita dopo orbita, la conclusione si allontanasse, invece di completarsi. Samantha Harvey ha trovato il tono adatto per trasmettere il generale senso di inquietudine che condividono gli astronauti di Orbital, tra lo stupore degli orizzonti e delle linee terrestri che si mettono in mostra per ogni rotazione alla complessità delle condizioni (biologiche, psicologiche, tecniche) a cui vengono sottoposti i corpi e le coscienze dei viaggiatori. Un processo originale, senza dubbio, ma riflette ed è permeato dallo stesso senso di claustrofobia che si addensa in Orbital e richiede un alto livello di concentrazione. La scrittura è il frutto finale di un composto in perenne cerca di equilibrio tra l’introspezione, il silenzio e il confronto dei protagonisti, le annotazioni tecnologiche e specifiche della missione, il cielo e il buio, i pianeti e le galassie, la terra vista dallo spazio e piccoli inconvenienti quotidiani che a casa, su un pianeta maltrattato, sarebbero ai limiti della banalità e lassù, invece, sono un’impresa. Le misure, a partire dall’assenza di gravità, definiscono un microcosmo tutto chiuso e fuori un universo aperto e infinito, un habitat che comprime i corpi non meno dei pensieri e uno che si espande come una bolla e dato che “lo spazio fa a pezzi il tempo”, in Orbital “i secondi si dissolvono e hanno sempre meno significato. Il tempo si riduce a un punto su un campo bianco candido, preciso e assurdo, poi si gonfia e perdere i contorni, diventando informe”. La prospettiva è biunivoca: vicino e lontano collassano uno sull’altro, la meraviglia dell’avventura tra le stelle sfuma nella nostalgia e nella malinconia e nell’infinitesimo resta l’attesa e/o la speranza per “l’improvviso agguato della felicità”. Con tutta la raffinata grazia della scrittura di Samantha Harvey, Orbital è un romanzo estremo, bello e inafferrabile.