lunedì 28 luglio 2025

Reinhard Kaiser-Mühlecker

Jakob è un uomo senza particolari qualità che vive e lavora in una fattoria nelle pianure austriache. Sullo sfondo, il rombo dell’autostrada come un acufene insistente e fastidioso e assillante a definire i limiti geografici di Bracconieri e quelli esistenziali di Jakob: mangia pochissimo, coltiva da tempo intenzioni suicide e l’incapacità di costruire relazioni solide e durature, nonché le incongruenze nei rapporti famigliari lo costringono in una prigione mentale che non concede alternative possibili. La descrizione iniziale di Reinhard Kaiser-Mühlecker è precisa e completa nella sua analisi: “Era così attaccato alle sue abitudini e alle sue aspettative che, come uno che si aggrappa alla sua malattia perché si è trasformata nella sua identità, nella sua seconda pelle, nel suo scudo protettivo, non voleva rinunciarvi”. Il pregio maggiore è l’applicazione al lavoro nei campi: riesce dove il padre, una figura assente e ingombrante nello stesso tempo, ha fallito ed è portato ad assecondare i cicli della natura e del clima condividendo i silenzi e i ritmi bucolici con una varietà di animali. A parte piccoli inconvenienti, e qualche segreto ben nascosto, è un tran tran placido fino all’arrivo di Katja che diventa presto sua moglie e madre di Marlon. La sua presenza illumina una catena di figure femminili che, dalla nonna alla madre fino all’insopportabile sorella Luisa, che determina i mutamenti principali nello scorrimento di Bracconieri. C’è una tensione costante e acuta che potrebbe essere un lungo preludio a qualcosa di drammatico e invece grazie alle intercessioni di Katja, Jakob viene addirittura premiato come imprenditore dell’anno, con tanto di sindaco, autorità e celebrazioni assortite. Quel momento pubblico all’interno di un’area molto privata, se non esclusiva, è un punto di non ritorno per Jakob che “aveva capito che non poteva comunicare le sue sensazioni, e che non doveva nemmeno farlo, se voleva tenersele”. Da lì in poi lo ritroviamo completamente assorto nei suoi pensieri che contengono “ore di retrospettive, di riassunti, di bilanci: lo divennero naturalmente, per via di quel riconoscimento inaspettato, di quell’evento inatteso, che fu una cesura nel tempo che altrimenti sarebbe trascorso con indifferenza e il più delle volte inosservato”. I riflessi autobiografici di Reinhard Kaiser-Mühlecker si condensano nella gestione dell’azienda agricola, poi la sua scrittura lineare, senza una virgola fuori posto (resa alla perfezione nella traduzione di Alessandra Iadicicco) condensa lo spettro lessicale di Jakob che, in effetti, è un circuito chiuso dove domina “un linguaggio in cui si poteva dire tutto, in cui tutto veniva detto perfino, in un mondo che altrimenti non esisteva da nessuna parte e cui lui solo aveva accesso e che nel corso degli anni per lui era sempre più diventato un rifugio”. La deflagrazione dei rapporti è solo una questione di tempo, ma non ci sono particolari colpi di scena (a parte i poveri cani, Landa e Axel) o exploit di sorta. Senza svelare nulla di sorprendente, Jakob è solo all’inizio e lo sarà alla fine in compagnia di “vecchi pensieri. Pensieri pensati spesso. Pensieri morti” e, naturalmente, “ricordi” ormai inutili e l’originalità di Bracconieri è nell’ipnotica riproposizione di uno schema perché se “a Jakob tutto appariva come in un brutto sogno, un incubo che non aveva mai fatto”, al lettore arriva come una puntualissima fotografia della solitudine e dell’incomunicabilità in un mondo avvolto in un brusio di parole in gran parte inutili.

venerdì 25 luglio 2025

James Pettifer

James Pettifer è un accademico britannico che ha dedicato la carriera agli studi balcanici ed ellenici, credenziali tutto sommato abbastanza incoerenti rispetto al New Jersey e a Springsteen e più ci si addentra nella lettura e più diventa evidente l’attrito tra la specializzazione e il suo nuovo obiettivo sull’altra costa dell’Atlantico. Poi è verissimo che “l’America possiede ancora la magia di rendere nuove le persone e le cose”, però si comincia con un bell’abbaglio, ovvero il racconto di Springsteen che va a trovare Woody Guthrie, ed è chiaro che c’è un po’ di confusione con le gesta di un altro ragazzo di belle speranze. Capita, per carità, perché Pettifer ci avvisa che “c’è sempre qualcosa di strano che ci distrae in New Jersey”, e non è tanto quello il problema, piuttosto il tentativo di tenere insieme un diario di viaggio, l’analisi sociologica e antropologica di una regione e Bruce Springsteen: un puzzle macchinoso che spesso e volentieri diventa sfuggente. Con la convinzione che “i luoghi sono importanti per la musica popolare americana”, e fin qui ci siamo, James Pettifer esplora tutte le contee e le aree del New Jersey, da Asbury Park a Flemington (la città natale di Danny Federici), dall’università di Princeton a Atlantic City e si spinge fino a Pittsburgh dove riesce nell’intento di elencare tutte le frequentazioni musicali e nello stesso tempo nell’impresa di non citare Joe Grushecky, che magari conosciamo in pochi, ma che di sicuro ha un valore specifico per la città e per Springsteen. Le sue dissertazioni comprendono il gioco d’azzardo e la passione americana per i numeri, la mafia reale e quella della fiction, ovvero I Soprano, William Carlos Williams, Walter Pater e William Burroughs, la guerra di indipendenza, i naufragi sulla costa e la speculazione edilizia nell’entroterra. La storia avanza a singhiozzo e molto dipende dal tono di James Pettifer che resta indeciso tra lo sfoggio erudito del professore (e si capisce), l’ironia a tutti i costi dell’inglese in America, e non sempre cade al posto giusto, e l’intenzione di arrivare ad altre destinazioni. Leggete uno qualsiasi degli ultimi romanzi di Richard Ford e troverete tutto il New Jersey raccontato con maggiore precisione e con molta più grazia, ma in tutto ciò più si procede e meno è chiaro il ruolo di Springsteen che viene evocato nel florilegio eccessivo di digressioni e citazione classiche dalla caverna di Platone in poi. Magic è l’album di riferimento e gli altri richiami alla discografia ufficiale sono piuttosto casuali e, se da una parte Pettifer ci avvisa che “la poesia dei suoi versi viene dal profondo della vita del Jersey”, e d’accordo, dall’altra dice che raramente Springsteen è preciso nell’evocare i paesaggi. Un’opinione piuttosto discutibile, ma tutto sommato comprensibile. Quello che fa crescere qualche dubbio in più è la sensazione che il professor Pettifer sia un po’ a digiuno delle dinamiche del rock’n’roll che sembra conoscere solo attraverso l’applicazione di qualche luogo comune. Ecco come descrive un’idea generica di un concerto: “La gente salta e giù, si sbraccia in una frenesia incontrollabile. Ragazze si sfilano le mutandine e le lanciano sul palco con attaccato il numero del loro cellulare. Il gruppo suona un pezzo dopo l’altro”. Se capita per uno show qualsiasi, figurarsi per quello di Springsteen che è sempre un happening particolare. Eppure, anche in questo caso, la percezione riguarda piuttosto l’attesa, il prezzo dei biglietti, il pubblico in coda, poi non è chiaro nemmeno a lui cosa abbia visto o sentito, fino ad accorgersi che “la musica è oltre le parole” e qui non serve laurearsi in filosofia, basta ascoltare Radio Nowhere. Almeno Pettifer è onesto e lo ammette con un certo candore: “Partecipando al concerto ho sentito che stavo diventando complice di qualcosa che non ero sicuro di capire”. È proprio come direbbe il prediletto e citatissimo Platone: “Così ora l’amato è innamorato, ma non sa dire di che cosa”. Tutte le altre elucubrazioni di passaggio sono troppe, e suonano inutilmente complicate, tant’è che in fondo il professore deve arrendersi all’evidenza e saluta l’America così: “Ci vediamo ad Atlantic City, dice la canzone, vieni nel New Jersey, esplora, viaggia. Sii vivo in un modo unico, come Bruce Springsteen e la E Street Band ti ispirano a essere con la loro musica (qualsiasi cosa il sistema ti tiri addosso)”. Ci vuole un bel po’, ma alla fine ci è arrivato anche lui.

venerdì 18 luglio 2025

Hervé Muller

Quello di Hervé Muller è stato uno dei primi tentativi di esplorare la figura di Jim Morrison cercando di sottolinearne la complessità e provando a evitare i cliché legati alle movenze e agli aspetti più epidermici della vita turbolenta in America e della morte a Parigi. È ammirevole, se non altro per la tempestività, l’intenzione di restituire a Jim Morrison un contorno un po’ più acuto, ripercorrendo le densissime influenze letterarie, a partire, giusto per esempio, dal connubio con Rimbaud, come poi avrebbe sviluppato più a fondo Wallace Fowlie. Molto interessante anche il parallelo a distanza tra i Velvet Underground a New York e i Doors a Los Angeles, che approfondisce il legame con le rispettive città e i distinti ruoli di Lou Reed e Jim Morrison. Hervé Muller dedica (giustamente) tutto lo spazio necessario anche agli altri membri, John Densmore, Ray Manzarek e Robby Krieger, ma l’immagine dei Doors coincide con quella di Jim Morrison e, album dopo album e concerto dopo concerto, diventa un’ombra sempre più pesante. Le dinamiche di una rock’n’roll band possono diventare opprimenti, in particolare se uno si sente un poeta o uno scrittore tout court. È un attrito che, insieme alle sue pesanti condizioni personali, ha contribuito non poco a spingere Jim Morrison verso l’Europa. Il “cantante dei Doors” non voleva restare imprigionato nell’eclatante personaggio “politico erotico” che andava in scena ogni sera sul palco e ambiva a un altro riconoscimento che non lo confinasse a interpretare all’infinito l’identità fallace della rock’n’roll star dissoluta e disperata. Il proposito di sviluppare qualcosa di più e di diverso dai Doors, puntando verso opere poetiche e visive di un’altra dimensione era impellente, come annunciava Jim Morrison: “Se la mia poesia avesse un’ambizione, sarebbe quella di liberare le persone dai limiti del loro modo di vedere e sentire”. Il condizionale era già un sintomo preoccupante: Hervé Muller riesce a collocare in modo adeguato quel passaggio tanto desiderato quanto incompiuto, a partire dalla suite The Celebration of the Lizard, come poi l’ha raccontata Lewis Shiner. L’occasione è propizia anche per riconoscere la natura stessa della sua espressione che Muller descrive così: “Nulla di ciò che Morrison ha scritto o cantato ha mai raggiunto una forma definitiva, statica. Le sue parole avevano vita propria, inseparabile da quella del loro autore: seguivano un ritmo incostante e frenetico, subendo la stessa ricerca nomade e incessante”. Non c’è molto da dire degli “strani giorni a Parigi”, che videro Hervé Muller testimone diretto: tra la ricerca dell’anonimato, la solitudine, le illusioni sul futuro e lo scorrere senza fine dell’alcol, il tramonto di Jim Morrison è visto come un film in bianco e nero accelerato e palpitante. Sono la cronaca di un collasso annunciato ed è inevitabile notare il crollo, un momento dopo l’altro, a Parigi che doveva essere un rifugio, o almeno la tappa di un nuovo inizio, e invece diventa un cul de sac, una trappola. L’elaborazione del finale resta incompleta, anche se in parte ha il pregio di assecondare la documentazione ufficiale e di evitare dietrologie pur notando che “forse il mito di Morrison non avrebbe acquisito una tale importanza se vari fattori non avessero contribuito ad avvolgere nel mistero le circostanze della sua morte”. I fantasmi nei vicoli parigini, il ruolo confuso di Pamela Courson, la rapidità delle esequie lasciano intatti i dubbi. È una cronaca che risale al 1973, in pratica in tempo reale, e come è logico, molti dettagli sono ancora sfuocati, e verranno ripercorsi in seguito da analisi più ampie e puntigliose. Inquadrandoli nel momento storico, gli Ultimi giorni a Parigi sono appunti validissimi che ripercorrono la storia di Jim Morrison, anche se poi nello specifico delle ore fatali non aggiungono molto di più. Definire l’uomo e l’artista è comunque complicato, ancora di più nel caso di Jim Morrison che conteneva grumi di una personalità caotica e irrisolta che forse seguiva la massima di William Blake: “Il folle che persiste nella sua follia diventa saggio”. Non ne ha avuto il tempo, la fine della notte è arrivata troppo presto.

venerdì 9 maggio 2025

Julia Deck

Se viene meno il “diritto alla città” come lo immaginava Henri Lefebvre, non resta che spostarsi nello “spazio indefinito” delle realtà suburbane dove un simulacro del senso di comunità può proliferare tra barbecue, mercatini dell’usato e aperitivi. È la scelta di Charles Caradec ed Éva che, lavorando “nel settore dell’urbanistica” è ben consapevole dei limiti e delle possibilità del trasloco dal centro di Parigi verso un nuovo quartiere periferico. Julia Deck glielo fa dichiarare senza esitazioni: “Credevo nell’espansione della città fuori dai suoi confini ed ero convinta che le zone verdeggianti meno densamente popolate potessero garantire a tutti un maggiore benessere. Ci saremmo allontanati dal rumore, dall’inquinamento. Nel nostro giardino avremmo potuto respirare l’aria a pieni polmoni senza alcun timore”. Questo il progetto di Proprietà privata che (nell’accurata traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala) racconta uno o più fallimenti perché le regole dell’architettura e delle pianificazioni territoriali non sempre coincidono con quelle della convivenza. Anche se l’opzione di Charles Caradec ed Éva all’inizio, è abbastanza semplice: “Cercavamo di considerare le cose nella giusta prospettiva. Forse, col passar del tempo, saremmo riusciti a mettere radici in questo posto”. Si ritrovano circondati da famiglie: i Lecoq di Annabelle e Arnaud, poi i Taupin, i Lemoine, i Benani, i Bohat e e i Durand-Dubreuil e in un attimo si ricordano che gli altri sono l’inferno. Mentre Éva, per una paradossale legge del contrappasso, deve reinventare la storica Place des Fêtes, e pare già sviluppare un embrione di nostalgia per Parigi che “era troppo grande, non ci si imbatteva nelle persone per caso”, la Proprietà privata è minacciata dall’ingerenza dei vicini. L’alterazione è progressiva: scenate e silenzi si sovrappongono e si alternano e così riemergono i problemi del disturbo “ossessivo-compulsivo” di Charles. L’insediamento stesso che è “moderno ed etico” e avvolto nelle parole d’ordine dell’ecologia prêt-à-porter, sostenibilità su tutte, si dimostra una gabbia come tante dove impazzano noia e crudeltà, due bestie che vivono in simbiosi. Questo è il contesto in cui si sviluppano le nevrosi di Proprietà privata, poi Julia Deck si diverte a infierire sui personaggi, come se ogni lottizzazione contenesse un destino amaro più o meno deciso all’origine. A quel punto Éva e Charles hanno già complottato di uccidere un bel gattone che scorrazza da un giardino all’altro. Se i loro propositi truculenti restano una congettura, qualcun altro ha provvede a massacrare l’innocente felino. Da quel momento in poi, precipita tutto, come nota la stessa Éva: “La morte del gatto ha messo fine agli aperitivi. Ci dicevamo buongiorno e buonasera, ma nessuno faceva più lo sforzo di invitare gli altri a casa sua”. La tensione, maturata in una realtà ballardiana in sedicesimi, esplode in tanti piccoli disastri quotidiani e altrettante paranoie, sottoprodotti di uno “sradicamento totale e definitivo”. La periferia non è l’Eden e nella dimensione narrata da Julia Deck emergono le fibrillazioni di un processo di disgregazione che vede senza dubbio Éva nell’epicentro, ma che coinvolge tutta l’area residenziale, a partire da Annabelle (che scompare con il figlio). Il dettaglio sostanzioso di Proprietà privata è all’interno di una scelta inusuale: Éva è la narratrice che si rivolge a Charles delimitando così una zona intima e intangibile, una cellula refrattaria di un organismo più complesso e ancora in fase di definizione. Il risultato, ovvero il tono e lo stile che si accorda alla scrittura limpida e tagliente di Julia Deck, non concede nulla. Come diceva sua maestà Le Corbusier “nessuno può disporre del domani”, gli eventi incalzano Éva e Charles ed è difficile distinguere il senso di un habitat frutto di pianificazioni, regolamenti, prospetti, proiezioni e concessioni che sovrastano la Proprietà privata. Qualcuno deve aver sbagliato nel calcolare l’impatto ambientale e quello che succede (sparisce anche un cane, tra l’altro) lascia spazio soltanto ai luoghi comuni: la gente resta sulla soglia a fissare la strada e, sì, anche Éva e Charles salutavano sempre. 

lunedì 24 marzo 2025

Fabrice Tassel

Un incidente su un molo, un’indagine che è il classico atto dovuto, uno screzio irrilevante nascosto ai magistrati. Thomas (e Anna) non hanno nemmeno mentito in un momento di profondo buio. In confronto all’imponderabile dolore per la perdita del figlio, Gabi, quell’omissione, che non è neanche una bugia, piuttosto una verità tralasciata, risulta un elemento marginale, un piccolo neo nel corso delle procedure legali. Eppure è lì quando la giudice Dominique Bontet lo scopre e seguendo l’istinto non riesce ad archiviare la pratica. Il procuratore, nel nome della produttività e dell’amministrazione della giustizia, vorrebbe maggiore celerità nelle decisioni. I fascicoli sono tanti e si accumulano, ma, lei lo sa bene, “c’è sempre un vuoto, un punto dal quale tendere un’imboscata. Un’ipotesi impossibile. Uno spazio per l’immaginazione, per usare una parola che a lei chiedono di bandire”. La differenza tra la “convinzione” richiesta dal codice di procedura penale e l’intuizione porta Dominique a spingersi più avanti e a confessare al compagno, Antoine: “Perché un’indagine sia perfetta devi conoscere non soltanto i dettagli di un avvenimento, ma anche quello che è successo prima, e persino quello che è successo dopo, solo che è praticamente impossibile”. Dominique preferisce inseguire una giustizia più vicina alla verità che all’efficienza e questa è una distinzione molto delicata quando si tratta di violenze domestiche, e sulle donne, nello specifico. Diventa difficile anche separare il credibile dal reale, ovvero “la completezza e la sufficienza” delle prove. Una questione spinosa che, per lei e per i casi che sta seguendo, quello di Iris e quello di Anna, si rivelerà dirimente. Senza dubbio è il personaggio in grado di spiccare, se non altro per la dimensione psicologica che la vede assorbire non soltanto il lavoro giudiziario, ma anche il dolore delle donne. L’empatia non riceve particolari encomi, ma le sarà utile, anche perché Dominique è sempre al limite delle regole e dei codici deontologici della magistratura. D’altra parte, “sono ormai vent’anni che la sua vita è scandita da visi, fantasmi, vittime e carnefici che coabitano per settimane, mesi o anni, mentre lei si tiene in piedi in mezzo alle rovine”. L’ultimo arrivato nel suo ufficio, Thomas Sénéchal, è un bel rappresentante di “quegli uomini arrabbiati contro la loro stessa miseria”. Forse “non era un bugiardo patologico, semplicemente dal mondo si aspettava di più”, ma condivide la precarietà raccontata anche da Pierre Lemaitre, una delle letture preferite di Dominique, e, in particolare, non è molto distante da quel personaggio in Il silenzio e la collera che “si sforzava di non pensare che era una persona in difficoltà, ma era più forte di lui, le sue sbandate lo spaventavano”. Se, tra un fallimento e l’altro, l’esistenza di Thomas Sénéchal, come del resto quella degli altri che “sembrano uomini”, diverge e tende alla solitudine e al disorientamento, le vite delle donne (Dominique, Anna, Iris) convergono. Questa geometria variabile si ripropone con una regolare frequenza e genera il ritmo serrato della storia, garantito dall’accurata scrittura di Fabrice Tassel: Sembrano uomini (nella traduzione di Francesca Bononi) ha le sequenze delle maree, e del resto siamo in Bretagna, e avanza a ondate. I protagonisti vengono spostati di volta in volta verso il loro destino, che appare ineluttabile più Dominique si avvicina ai loro casi. Persino Anna, a sua volta, si ritrova “sola e libera”, ma Dominique ha ancora dei passi da fare. La chiave di volta, e la soluzione del rebus, sarà ancora una volta nell’oceano dove tutto è cominciato, facendo venire a galla il potere deformante della menzogna, che scava un solco irreparabile.

venerdì 21 marzo 2025

Graham Swift

Diceva Graham Swift che “una delle funzioni fondamentali della narrativa sia quella di confrontarsi con il passato e mediare la relazione tra passato e presente”. È una precisazione molto utile per seguire tre generazioni della famiglia Beech in Via da questo mondo. Robert, il capostipite, perde un braccio nella prima guerra mondiale, viene decorato con una Victoria Cross e gli viene affidata una fabbrica di munizioni che, inevitabilmente, nel corso degli eventi, diventerà un caposaldo degli sforzi bellici. Un ritratto con Churchill celebra il momento, mentre il figlio Harry è destinato all’osservazione delle riprese aeree a cui, per naturale estensione, affianca la sua passione per la fotografia e inquadra  gli equipaggi di ritorno dalle missioni, un po’ vivi e un po’ morti. Diventerà un reporter prima durante il processo di Norimberga (dove sposa Anna), poi in Congo, a Birmingham, Alabama e in Vietnam nel 1965. Quasi a riconoscersi in “un indice del ventesimo secolo”, il suo lavoro è riportato in una raccolta chiamata Conseguenze dove ammette che “il grande valore della fotografia consiste nella sua attualità, nella sua mancanza di tatto, nella sua forza d’intrusione”. Resta il fatto che momenti della storia sono “mondi piccoli. Mondi grandi. L’uno può eclissare l’altro. Quando la luna copre il sole e fa oscurare il mondo, non è perché la luna è più grande del sole” e alle alterne vicende famigliari si sovrappongono i conflitti che Harry vede attraverso le lenti della macchina fotografica, tenendo presente che “il fotografo c’è e non c’è, non è né dentro né fuori. Se ci sei dentro è terribile, ma non ci sono problemi, tu fai quel che devi fare e non hai neanche il tempo di guardare. Qualcuno dev’esserci dentro e deve anche fare un passo indietro. Qualcuno deve testimoniare”. Vale quando un attentato dell’IRA uccide Robert, spalancando un baratro nella famiglia Beech e quando, ormai nel 1982, la marina inglese fa rotta verso le Falklands che Harry definisce “una guerra da mettere in vetrina. Una guerra da esposizione. Un’ultima piccola guerra in nome dei vecchi tempi”. A New York, Sophie, figlia di Harry, e madre dei gemelli, Paul e Tim, deve confrontarsi con un analista, K., e il suo è, in pratica ,un monologo: “Come fai a sapere, quando torni tanto indietro, che è veramente un ricordo? E non quello che ti hanno detto dopo, o che hai inventato tu? O un semplice parto della tua fantasia?”, una domanda che, come molte altre, resta inevasa. Il confronto a distanza tende a escludere o dissimulare gli altri personaggi. Anna scompare nei ricordi della Grecia travolta dal golpe dei colonnelli e Joe, il marito di Sophie, pare accontentarsi di un ruolo minore (“Lo so che per me non c’è mai stato in palio niente di grosso, nessun progetto, nessun incarico particolare. Sono stato quello che si definirebbe un imprevisto, o quasi. Un ospite, e basta. Un ospite in più, alla festa”) ed è chiaro che Via da questo mondo è fondato su un impervio dialogo tra padre e figlia, separati da una bomba, da un oceano, dagli anni, al punto di chiedersi: “Ma a che serve la vita, e a che servono questi maledetti film, se ogni tanto non riesci a scoprire che il modo in cui credevi non andassero le cose, quando credevi che andassero così solo nei film, è il modo in cui vanno veramente?”. Le capriole verbali preludono alla grande novità, quando Harry decide di sposare Jenny, molto più giovane di lui, e scrive a Sophie per invitarla in Inghilterra. Graham Swift riesce a mantenere un grande e raffinato equilibrio: sarà una coincidenza, ma entrambi (Harry e Sophie) stanno volando quando percepiscono la svolta che li coinvolge, come se fosse necessaria una certa distanza dalla terra per lasciarsi andare. Proprio Sophie, mentre sta tornando con i figli in Inghilterra, dice: “Al tempo succede qualcosa. Succede qualcosa alla normalità. Ci fanno un buco. Un buco senza fondo. Così quello che in un attimo è finito continua ad accadere. Accade a lungo, al rallentatore. E poi continua ad accadere”. Ed è così che con Via da questo mondo, Graham Swift asseconda “la prima regola della fotografia: devi cogliere le cose di sorpresa; la macchina non inventa” e poi con uno stile elegante e pungente, lascia tutto sospeso sull’Atlantico, una porta aperta e un futuro ancora da scrivere.

lunedì 17 marzo 2025

Samantha Harvey

Orbital un’esperienza di scrittura rarefatta come l’atmosfera nello spazio, senza un dialogo, anche se non mancano le divagazioni perché ognuno dei viaggiatori quando guarda verso la terra ricorda legami, incontri, storie. Nella stazione orbitante il tempo collassa, non meno degli spazi, e non c’è equilibrio tra le limitatissime possibilità all’interno dell’involucro aerodinamico e quelle infinite e misteriose dell’universo, là fuori. Nell, Pietro, Chie, Roman, Shaun, Anton “all’improvviso dimenticano il loro ruolo di astronauti e provano la sensazione fortissima di essere tornati piccoli, all’infanzia”. Dall’alto devono seguire un tifone che imperversa sull’oceano Pacifico, pensano ai Voyager, le sonde spaziali ormai giunte ai limiti della loro missione, cercano di convivere con le emozioni e le piccole necessità di un’unità asettica, sapendo in fondo che, alla pari della strumentazione di bordo, “non sono altro che un ammasso di dati, fondamentalmente. Un mezzo e non un fine”. La condizione è aleatoria e contraddittoria, le orbite si estendono sulla terra una dopo l’altra, e frugare nello spazio, ovvero proseguire con “la ricerca del vuoto” è un’impresa improba, se non proprio inutile, al punto di convincersi che gli esseri umani siano “qualche scintilla di pietra focaia più avanti rispetto al resto, tutto qui”. L’effetto è ipnotico, ma anche straniante, come se, orbita dopo orbita, la conclusione si allontanasse, invece di completarsi. Samantha Harvey ha trovato il tono adatto per trasmettere il generale senso di inquietudine che condividono gli astronauti di Orbital, tra lo stupore degli orizzonti e delle linee terrestri che si mettono in mostra per ogni rotazione alla complessità delle condizioni (biologiche, psicologiche, tecniche) a cui vengono sottoposti i corpi e le coscienze dei viaggiatori. Un processo originale, senza dubbio, ma riflette ed è permeato dallo stesso senso di claustrofobia che si addensa in Orbital e richiede un alto livello di concentrazione. La scrittura è il frutto finale di un composto in perenne cerca di equilibrio tra l’introspezione, il silenzio e il confronto dei protagonisti, le annotazioni tecnologiche e specifiche della missione, il cielo e il buio, i pianeti e le galassie, la terra vista dallo spazio e piccoli inconvenienti quotidiani che a casa, su un pianeta maltrattato, sarebbero ai limiti della banalità e lassù, invece, sono un’impresa. Le misure, a partire dall’assenza di gravità, definiscono un microcosmo tutto chiuso e fuori un universo aperto e infinito, un habitat che comprime i corpi non meno dei pensieri e uno che si espande come una bolla e dato che “lo spazio fa a pezzi il tempo”, in Orbital “i secondi si dissolvono e hanno sempre meno significato. Il tempo si riduce a un punto su un campo bianco candido, preciso e assurdo, poi si gonfia e perdere i contorni, diventando informe”. La prospettiva è biunivoca: vicino e lontano collassano uno sull’altro, la meraviglia dell’avventura tra le stelle sfuma nella nostalgia e nella malinconia e nell’infinitesimo resta l’attesa e/o la speranza per  “l’improvviso agguato della felicità”. Con tutta la raffinata grazia della scrittura di Samantha Harvey, Orbital è un romanzo estremo, bello e inafferrabile.

mercoledì 12 febbraio 2025

John Berger

Capita che John Berger venga buttato fuori da un museo come un outsider qualsiasi, quasi a ricordare che “la sciatteria è un promemoria della farsa che la vita rischia di essere”. Per tutta risposta e per nulla intimidito, colpevole soltanto di un’eccessiva attenzione alle opere esposte, Berger si affida a un’intuizione: avuto in regalo un taccuino lo immagina appartenuto a Baruch Spinoza, il filosofo dell’Etica, che, a quanto pare, era anche vicino di casa di Rembrandt. È una luce ingannevole che si protrae da uno schizzo all’altro, ma nell’ardita associazione Berger ricorda ribadisce come “noi che disegniamo lo facciamo non solo per rendere visibile qualcosa agli altri, ma anche per accompagnare qualcosa di inevitabile alla sua incalcolabile destinazione”. Si tratta di forme che vanno consolidandosi, sia nel tratto che nella scrittura ed è così che succede “quando una storia ci colpisce e ci commuove, genera qualcosa che diventa, o può diventare, una parte essenziale di noi, e questa parte, piccola o ampia che sia, è, per così dire, la sua discendenza o prole”. L’estetica di ogni disegno, che “ha una propria raison d’être, una propria speranza di essere unico”, diventa per Berger lo strumento per l’identificazione con Bento alias Baruch Spinoza, che lo conduce a frequenti divagazioni “per arrivare a dare un senso a quel che prima vista era caotico”. Le osservazioni sulla vita di ogni giorni e i filtri della pittura, e delle arti visive in genere, si sommano attorno a ritratti di persone notevoli nella loro normalità. Il dialogo con i protagonisti è continuo, senza sosta e John Berger si conferma, una volta di più, osservatore acuto e profondo, capace di evidenziare ogni singolo dettaglio sia che si tratti di Erhard Frommhold a Dresda (incenerita) sia che parli di Luca, meccanico aeronautico a Parigi o Anton Čechov, Arundhati Roy o Andrej Platonov e infine Woody Guthrie, con ogni probabilità una voce importante per ricordare, una volta di più, che “le speranze sincere, un tempo esemplificate dalle trionfali storie hollywoodiane, sono ormai fuori corso e appartengono a un’altra epoca. Oggi la speranza è un bene di contrabbando che passa di mano in mano e di storia in storia”. Gli incroci letterari, i tanti e diversi modi di vedere, i frequenti richiami all’Etica di Spinoza sono messi in evidenza e annodati da John Berger con un ritmo leggero e andante, che però non perde mai di vista i capisaldi dei concetti complementari di “eredità” ed “esito” che, nella loro articolazione sono la risposta alla domanda che piano piano s’insinua: “Dove deposita, la storia, coloro che l’hanno seguita, e in che stato d’animo sono?”. Con questo, Il taccuino di Bento non solo ricorda in ogni passaggio che “essere desiderati è forse la cosa che, in questa vita, più ci fa sentire immortali”, ma nell’insolita coalizione tra arte e filosofia riesce a trovare una sintesi, se non proprio una definizione, della vocazione di John Berger per lo storytelling sviluppato quando “il rifiuto di chi protesta si trasforma allora nel grido selvaggio, nella collera, nello humour, nell’illuminazione delle donne, degli uomini e dei bambini di un racconto. Narrare è un modo diverso di rendere indelebile l’istante, perché le storie, una volta ascoltate, arrestano il flusso unilineare del tempo e rendono privo di senso l’aggettivo ininfluente”. Una lettura preziosa, che dice molto dello sguardo di John Berger.