Una tensione non comune pervade le storie allineate in Gli anni di Nettuno sulla terra: i racconti tendono sempre a una fine. Può essere il crepuscolo dell’estate verso l’autunno, un anno che se ne va sfumando in un altro, la domenica sera, pensando che “domani non è lunedì, ma ciò che mi stupisce è quel finalmente detto con aria sorniona, come una confidenza, gli occhi stretti, ma luccicanti, quel finalmente che sembra una promessa: domani sarà qualcosa di diverso da questa infinita domenica che è la vita nelle sue zone estreme. O forse si è solo confuso con i santi e questa monotonia di gesti, questo ripetersi di volti che con lui invecchiano, sono davvero la barra di sostegno di un’esistenza che procede senza fretta, con grandiosa, malinconica ironia, verso la sua conclusione”. L’atmosfera condivisa è in bilico, tra una conclusione attesa, prevista e una piega che ha “qualcosa di inevitabile”, come scrive Elio Grasso in una postfazione ricca di spunti. Le storie sono brevi e seguono un itinerario nel tempo ininterrotto, che è lineare rispetto ai dodici mesi (identificati attraverso altrettanti racconti, nella sequenza corretta del calendario) ma eccentrico nella datazione degli anni, che si intravedono nelle notizie riportate a piè di pagina, all’inizio di ogni racconto. Hanno una funzione specifica, meglio descritta da Elio Grasso: “La pietà d’essere anonimi trova sostegno negli episodi storici, quanto vicini o lontani non si può sapere, ma che vergano tutti in una sostanza solenne contratta come se l’intero spazio esistente venisse curvato su se stesso dall’enorme massa di Nettuno”. Il tempo incapsulato nelle stazioni, in appartamenti gelidi, nelle strade, in Festa di mezza estate (un sogno musicale in equilibrio su tre pagine), scorre veloce e non passa mai, come in una labirintica promenade di Peter Handke, ma Anna Ruchat è molto più discreta nell’avvicinarsi ai suoi personaggi e nell’inquadrarli con chiarezza in un momento sfuggente, unico. Spesso si tratta di segmenti di viaggio: c’è sempre un treno che parte dalla Svizzera per andare a Parigi (Hotel Samarcanda e Il visone), a Roma o verso la Germania, dove Uomo tedesco all’alba celebra il suo stato zen ricordando che “la vita prosegue sempre, anche oltre la distruzione, ma le direzioni che prende sono imprevedibili”. Altrimenti sono frammenti di dialogo, il più delle volte tra donne, mogli, madri e figlie ritratte da Anna Ruchat nella fragilità, nella forza, nella straordinaria normalità con cui si scontrano con piccoli e grandi cambiamenti della storia. La protagonista, disorientata eppure consapevole, che affronta La gelata del ’63, è la prima figura a sfidare le zone grigie della vita (compreso il finale a sorpresa), così come il signor K., e nel nome non è difficile intravedere un omaggio a Kafka, è l’ultimo, quando ormai “sono i primi giorni di dicembre e c’è un’aria di smobilitazione”. Quel piccolo ricamo letterario che è Il cappello funziona come commiato, almeno quanto l’epigrafe di Wloder Goldkorn, tratta da Il bambino nella neve, coglie l’esatta dimensione in cui sono avvolti Gli anni di Nettuno sulla terra: “Preferisco che la memoria sia abitata da fantasmi, ombre, immaginazione; diffido di chi vuole che il ricordo sia sempre verificato. La memoria è tale quando è avvolta nella nebbia e soggetta a cambiamenti vale a dire quando è viva”. Anna Ruchat traduce questa visione in modo speculare, trovandogli una collocazione molto più precisa: “Noi esseri umani non facciamo che inventarci sempre nuove fantasie, amori infelici, torti subiti, carriere, per poi vivere nella nostalgia di altri mondi. L’unica via di accesso alla creazione è questa terra”. Una definizione razionale ed elegante, così come sono Gli anni di Nettuno sulla terra.
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