lunedì 11 marzo 2019

Jenni Fagan

Anais non ha conosciuto i genitori biologici e si sente frutto e parte di un indicibile esperimento: è una fuggitiva, è una ribelle, è una bambina in mezzo alla strada, e in un mondo di adulti senza speranza. La sua lotta per la sopravvivenza si evolve in un continuo conflitto con le istituzioni: la famiglia (sgretolata), la scuola (abbandonata), la polizia (combattuta) e, infine, il Panopticon, espressione architettonica e giuridica dell’assioma orwelliano per cui “un adulto che non sembri pericoloso appare quasi sempre ridicolo”. Il disagio e la caparbietà con cui si difende la trasformano nella protagonista indiscutibile di Panopticon, un capolinea più minaccioso che pericoloso. Senza dubbio il Panopticon è quella che Erving Goffman in Asylums definiva “un’istituzione totale”, ovvero “come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”. Il ruolo del Panopticon non è né repressivo né educativo: la manipolazione è limitata a escludere i suoi ospiti (eufemismo), a evitare la loro (incongrua) presenza all’esterno, cercando, attraverso la sua architettura, le porte socchiuse o sbarrate, le luci spente a definire routine, di delimitare un insieme di regole, e quindi un simulacro di identità. Non funziona, non funzionerà mai. L’arrivo di Anais, dopo una straziante trafila di famiglie affidatarie e altre tristissime vicissitudini, coagula un piccolo gruppo di reietti, che cercano di superare le ostilità del Panopticon, dai “meccanismi dell’esclusione e della violenza” (Erving Goffman dixit) agli irrimediabili conflitti con se stessi. Negli strumenti di autodifesa di Anais va annoverata, anche grazie all’uso smodato di sostanze (chimiche e non) la distorsione della realtà, al punto di coltivare la speranza di poter “diventare schizofrenica da grande”. Una via di fuga dentro un sogno ricorrente che svela lei stessa: “Se vivessi a Parigi passerei il tempo seduto nei piccoli caffè in riva al fiume, fumerei sigarette colorate e non parlerei mai. Cioè solo ogni tanto: sarei misteriosa”. Il contrasto tra i bistrot della Ville Lumière e il Panopticon è inevitabile e totale perché, nonostante le buone intenzioni (purtroppo, solo quelle) degli operatori e degli assistenti sociali, come scriveva Mary Douglas in Come pensano le istituzioni, “grazie al peso dell’inerzia istituzionale, immagini mutevoli sono mantenute abbastanza ferme da rendere possibile la comunicazione. Le istituzioni definiscono l’identità”. Con un’operazione visionaria, ispirata in tutta evidenza a William Burroughs, Jenni Fagan, traduce ed esprime la strenua guerriglia di Anais restandole incollata, senza mai discostarsi, nemmeno di un millimetro, da un linguaggio sboccato, grezzo e gergale. Valga su tutto, la risposta più frequente, quel tambureggiante “a-ah”, un intercalare che si ripresenta in continuazione nei dialoghi. Un approccio quasi naturalista, persino dovuto, perché Anais non è né un “esperimento” né una “persona normale”: il suo unico appiglio per restare quella che è, “solo un ragazza col cuore di squalo”, è combattere nella trincea della diversità. La voce che le affida Jenni Fagan non fa sconti, nemmeno nelle divagazioni psichedeliche (e non sono poche): quando Anais dice che “fuori c’è un mondo che non smette di agitarsi, quindi posso scegliere: contare le cose o nominarle”, compie un rituale che non è soltanto simbolico. Quel continuo ridefinirsi (e ridefinire la realtà) è una strategia di resistenza alla brutalità burocratica e istituzionale che si compone, come notava Erving Goffman, di “antagonismo, affetto, indifferenza”.  Con le sue torri e il suoi gargoyle, il Panopticon è tutto attorno a noi, espressione nello stesso tempo del potere e dell’impotenza di fronte al disagio e all’emarginazione, un monumento gelido e buio che, in uno dei suoi momenti più cupi, porta Anais alla considerazione che “la gentilezza è la qualità più sottovalutata del pianeta”. Difficile non essere d’accordo con lei.

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