Quando gli chiesero tredici storie d’amore per la televisione, Gabriel García Márquez pensò di sollecitare il suo laboratorio di scrittura cinematografica di Città del Messico. I soggetti sgorgarono con sollecitudine, i riconoscimenti restarono molto vaghi e così Gabo e i suoi allievi decisero di svilupparli in modo autonomo. A spingerli non erano motivazioni professionali o commerciali (quelle che richiede un mezzo ingombrante come la televisione), ma una vocazione purissima che Gabriel García Márquez riassunse così: “La cosa che più mi interessa al mondo è il processo creativo. Che razza di mistero è questo che fa sì che il semplice desiderio di raccontare storie si trasformi in una passione tale che un essere umano è capace di morirne, di morire di fame o di freddo o di quel che sia pur di fare una cosa che non si può né vedere né toccare, e che in fin dei conti, in realtà, non serve a nulla”. Il confronto con i suoi allievi è la parte più consistente di Come si scrive un racconto, ma sono le indicazioni sparse in lungo e in largo da Gabo a costituire una sorta di vademecum per districarsi nello sviluppo delle storie, ben sapendo che “non c’è vera creazione senza rischio, e pertanto una dose di incertezza”. Le istruzioni e i suggerimenti non nascono da una lezione: sono frutto del dialogo costante con gli allievi del corso di cinematografia ma resta il fatto che tra una discussione e l’altra prende forma una sorta di decalogo sulla scrittura secondo Gabriel García Márquez. Il primo punto riguarda un aspetto preliminare a cui bisogna prestare molta attenzione: “La ricerca è sempre utile. È cercando la storia che si scopre il metodo”. Da lì Gabo raccomanda un rigorosa cernita, premurandosi di ricordare che “bisogna imparare a scartare. Un bravo scrittore non si riconosce tanto da quello che pubblica quanto da quello che butta nel cestino della carta. Gli altri non lo sanno, ma chi scrive sa perfettamente ciò che butta nel cestino, ciò che scarta e ciò che conserva. Se riesce a scartare vuol dire che è sulla buona strada”. E giusto per assicurarsi di essere capito, lo ribadisce a stretto giro di posta: “Ciò che non serve non serve, bisogna eliminarlo qualche che ne sia l’origine”. A quel punto, si entra nel merito, e Gabriel García Márquez si fa sempre più accorto nel seguire i suoi studenti, avvisandoli che “se si ha tra le mani una storia, non ci si può lasciar trasportare da idee che la contraddicano. O difendiamo le nostre storie, o cediamo alla tentazione di trasformarle in storie diverse”. I punti cinque, sei e sette sono corollari alla collocazione delle storie: prima di tutto “bisogna avere fede in qualsiasi immagine originale, che ti dica qualche cosa; se ti dice qualche cosa quasi sempre è perché racchiude qualcosa”, poi “bisogna definire il genere sin dal principio. Non c’è niente di peggio di una commedia involontaria, cioè di quando uno è convinto di fare un dramma e gli viene fuori una commedia” e, infine, “bisogna fare attenzione a non alterare gli aspetti essenziali della storia; il nostro compito è apportare delle idee affinché la storia risulti il più coerente e attraente possibile”. Le raccomandazioni pratiche finiscono lì, poi Gabo spiega gli allievi che “il fallimento deve avere una solida ragione drammatica, altrimenti perde senso” e ricorda che persino “le profezie sono cifrate per proteggere se stesse dal fallimento. Non possono correre il rischio di rovinarsi da sole. Se tu credi nelle profezie e ti predicono che quando uscirai da qui, all’una e dieci di notte, ti cadrà una tegola in testa, tu naturalmente non verrai qui, o non uscirai di qui all’una e dieci di notte, e la profezia pertanto non si compirà mai. Le profezie si decodificano con precisione soltanto dopo che si sono avverate, o meglio dopo che succede quanto presumibilmente doveva accadere”. Arrivati alla fine, qui c’è tutto quello che bisogna sapere sulla scrittura e l’ultimo punto è lasciato a un’allieva Gloria che giustamente dice: “Ho una montagna di appunti. Vado a mettermi al lavoro”. Da qualche parte bisogna pur cominciare.
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