Nel suo complesso, l’opera omnia di Wisława Szymborska rispecchia l’intuizione da cui tutto è cominciato, la sensazione che “il nostro bottino di guerra è la conoscenza del mondo: è così grande da stare tra due mani, così difficile che per descriverlo basta un sorriso, strano come l’eco di antiche verità nella preghiera”. Lo scriveva nel 1945, in Raccolta non pubblicata, e quella naturalezza è rimasta intatta, custodita in una linguaggio limpido, che sa dominare L’orribile sogno del poeta, quello che “nelle frasi domina l’incondizionale, i nomi aderiscono strettamente alle cose. Nulla da aggiungere, togliere, cambiare e spostare”, e coltiva con discrezione l’umiltà espressa in Possibilità: “Preferisco il ridicolo di scrivere poesie al ridicolo di non scriverne”. In realtà, nelle Opere di Wisława Szymborska si scopre la maturazione di una forma di dialogo continuo, che parte proprio dalle dimensione del sogno (“E sognerai che non occorre affatto respirare, che il silenzio senza respiro è una musica passabile, sei piccolo come una scintilla e ti spegni al ritmo di quella” diceva in Appello allo Yeti), manifestata apertamente con La veglia (“Non i sogni sono folli, folle è la veglia, non fosse che per l’ostinazione con si aggrappa al corso degli eventi”) e La memoria finalmente (“Solo ora posso dire in quanti sogni hanno vagato, in quante resse li tiravo fuori da sotto le ruote, in quante agonie da quante mani mi scivolavano”). Dalla folta selva onirica, gli orizzonti si allargano e sapendo “come sono permeabili le frontiere umane”, la poesia di Wisława Szymborska si accorge in Campo di fame presso Jasło come “la storia arrotonda gli scheletri allo zero” e, con Disattenzione, che “il mondo avrebbe potuto essere preso per un mondo folle, e io l’ho preso solo per uso ordinario”. La distingue comunque l’accettazione di un limite, quello espresso in Parabola (“Seguì una sensazione di disagio, calò il silenzio. È quel che accade con le verità universali”) o Movimento irrigidito (“Un passo dall’arte eterna all’eternità artificiale, con riluttanza ammetto che è meglio di niente e più giusto che no”). Più ci si inoltra nelle Opere di Wisława Szymborska e più ci si accorge di come la sua voce si sia fatta via via in grado di affrontare piccoli e sfuggenti dettagli sapendo “il particolare è inflessibile”, condensando una raffinata ironia (straordinaria in Autotomia: “Morire quanto necessario, senza eccedere”), e conservando una genuiva relatività. Evidente nei versi di Una vita all’istante: “Non conosco la parte che recito. So solo che è la mia, non mutabile”, ed per questa convinzione, che la ricchezza della sua poesia risponde a una precisa collocazione, anche quando si adegua a rileggere le coordinate esistenziali in Solitudine cosmica (“La vita è schizzinosa e richiede un concorso di circostanze assai particolari; il loro verificarsi si osserva sul nostro pianeta e, per il momento, da nessun’altra parte”) o in Ogni caso (“E ciò che d’un tratto mi è saltato da sotto i piedi, non è saltato lontano, perché calpestato è caduto, e benché ancora si svincoli ed emetta un prolungato silenzio, è un’ombra, troppo mia perché mi senta alla meta”) e con Il ballo (“Non so agli altri, per essere felice e infelice, a me basta questo: una dimessa provincia dove anche le stelle sonnecchiano e ammiccano nella sua direzione non significativamente”). Il denominatore comune del patrimonio lirico di Wisława Szymborska è una ricchissima coltivazione di parole, delimitata da piccole digressioni sul tema. Se ne possono ricordare almeno due, a definire un possibile tracciato, inizio e fine intercambiabili. Scriveva in Il classico: “Qualche zolla di terra, e la vita sarà dimenticata. La musica si libererà dalle circostanze”, e così d’altra l’eco rispondeva In lode di mia sorella: “A volte la poesia scende a cascate per generazioni, creando gorghi pericolosi nel mutuo sentire”. Ed dunque si ricomincia dall’inizio perché “conosciamo noi stessi solo fin dove siamo stati messi alla prova” e la forza di Wisława Szymborska è nel contrasto tra l’ammissione che “solo ciò che è umano può essere davvero straniero. Il resto è bosco misto, lavorio di talpa e vento” e la vocazione espressa con “la gioia di scrivere. Il potere di perpetuare. La vendetta d’una mano mortale”. È tutto lì, e molto più di un premio Nobel.
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