Quando arriva in una piccola e bucolica cittadina svedese l’avvocato Edvard Libotz è “un uomo intelligente, di mente aperta. Già alla lettura di un caso complicato poteva tratteggiarne una prima relazione in tribunale. Sempre riflessivo e sereno, si teneva al sodo e non consentiva mai all’avversario di perdersi in chiacchiere e giri viziosi”. Le sue doti dovrebbero essere una garanzia ed è accolto dall’anfitrione naturale, che è Askanius, l’oste per antonomasia, comprensivo e indulgente, colto e assertivo, capace di condividere con i clienti confidenze e saggezze, e qualche bicchierino di troppo. Eppure, è come se un sasso fosse arrivato all’improvviso al centro di uno stagno immobile da anni. Se in Libotz c’era “anche un desiderio di riconciliazione che lo induceva a sorvolare sui tranelli”, nel posto in cui è finito i conflitti locali portano i segni di una decadenza provinciale dove i peccati non si scontano mai. L’innocenza di Libotz ha qualcosa di ambiguo perché lo porta in continuazione a vivere situazioni imbarazzanti, a partire dal sofferto rapporto con il padre e con il resto della famiglia. Una solitudine asfissiante anche quando s’innamora di Karin, la cameriera di Askanius, eppure, anche se con grande fatica riesce a esternare i suoi sentimenti, con un fidanzamento ufficiale, tutto finisce in una cappa di incomunicabilità, entre tra gli uomini si parla, e fin troppo. Tjärne e Libotz conversano “con fervore, come due naufraghi su un’isola deserta. Di sciocchezze, di niente, solo al fine di udire una voce. Per paura d’inciampare nei tristi trascorsi, evitavano tutto ciò che riguardava le loro persone; facevano i brillanti per non andarsene per la propria strada, in solitudine; si addolcivano quella siesta; mostravano i loro lati più belli e più nobili”. Gli eventi si moltiplicano e le relative dinamiche colpiscono Libotz: con l’ingenuità e i limiti con cui si accompagna, tra due, tre fuochi diversi più che un capro espiatorio, sembra una vittima collaterale ante litteram. Prima si vede “citato in giudizio per diffamazione” dal commissario Sjögren, padre del suo infedele e truffaldino praticante e lì comincia “un processo come molti altri, dove il colpevole attaccava non solo l’innocente ma persino il danneggiato”, con un non raro capovolgimento di ruoli. D’altra parte Askanius abbandona la sua trattoria e apre un ristorante di lusso, di fronte a quello rinomato che esiste già. La scontro con la concorrenza non dura molto: per la legge del contrappasso entrambi vengono superati dal “monopolio”, un’entità misteriosa ma non così irreale, che impone il Grand Hotel, la ferrovia e tutte le pressioni del progresso che Il capro espiatorio lascia uscire dall’ombra per stravolgere le psicologie dei protagonisti. August Strindberg è un cesellatore che, con tocchi raffinati, definisce i personaggi pagina dopo pagina, seguendone l’evoluzione all’interno della storia e, ancora di più, della loro mutevole personalità. Libotz alias Il capro espiatorio è comunque al centro dell’attenzione, ma attorno a lui si sviluppa, come scrive Franco Perrelli che introduce e traduce Strindberg con grande perizia, “un’onesta testimonianza sull’essere uomini”, con la dimensione appurata del classico.
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