domenica 17 dicembre 2017

Ryszard Kapuściński

Dalle alture del Golan alle foreste del Mozambico, dagli altipiani della Bolivia a Beirut, dal Guatemala alla Giordania, Kapuściński affronta, vive, racconta i movimenti di liberazione e d’indipendenza, le dittature e i colpi di stato, i guerriglieri e i terroristi, le speranze e gli incubi del mondo postcoloniale tra il 1969 e il 1974. Anche se ormai risale a quasi quarant’anni fa (la somma di questi dieci reportage risale al 1975) questo giro del mondo attraverso i conflitti dell’era postcoloniale successiva alla seconda guerra mondiale, meritava di essere riscoperto nella folta bibliografia di Kapuściński. Non soltanto perché gran parte delle questioni territoriali, politiche e militari che affrontò sono rimaste irrisolte (va da sé che le pagine sul Medio Oriente sembrano scritte ieri): per quanto attentissimo alle dinamiche locali e internazionali, alla formazione della storia “dal basso”, Kapuściński è sempre stato capace di irradiare dal suo lavoro sul campo una comprensione di carattere universale sulla natura fallace dell’uomo e delle sue istituzioni. Mentre racconta le tragedie della Bolivia nella corposa parte centrale dedicata all’America Latina, Kapuściński non può fare a meno di notare che gran parte dei problemi, se non tutti, derivano dal cinismo e dal calcolo politico e scrive nei suoi dispacci da La Paz: “Qualcuno ha saggiamente osservato che in politica non occorre fare nulla: metà dei problemi è comunque irrisolvibile e l’altra metà è destinata a risolversi da sola. L’essenziale in politica, è sapere aspettare: il più bravo a farlo vince la partita”. In quegli anni l’attesa era giusto tra un golpe e l’altro e i politici si sovrapponevano ai militari e viceversa nel generare, stagione dopo stagione, regimi che si nutrivano di terrore, di silenzio, di complicità e di quel ribaltamento della realtà e della morale che è la prima fonte di potere della tirannia perché “visto che le colpe le espiano gli innocenti, uno può morire perché non ha ucciso. In questo modo, quanto più uno è innocente, tanto più è colpevole. Quindi, quanto più uno è innocente, tanto più ha paura”. Kapuściński non sfugge agli elenchi dei massacri, delle torture, delle sparizioni, delle liste di proscrizione, delle connivenze e degli interessi, eppure continua a cercare il lato umano, spiega fino in fondo che tra morire ribelli e morire innocenti non c’è differenza. C’è una frase riferita al conflitto tra palestinesi e Israele che vale per tutti: “Qui, infatti, non si permette a nessuno di vivere tra le stelle. Qui ti trascinano sulla terra perché tu veda il sangue seccarsi e senta esplodere le bombe”. Leggendo Kapuściński sembra proprio che il suo sguardo sia partito da lì, da qualche millimetro tra la polvere, come lascia intuire il bellissimo, toccante finale. Piccola, ma urgente postilla: nel raccontare la facilità con cui nell’America Latina di quegli anni si poteva finire in una lista di nemici pubblici e poi finire desaparecido, Kapuściński spiega che le dittature “considerano comunista chiunque la pensi diversamente da loro o, più semplicemente, chiunque pensi”. Questa l’abbiamo già sentita, da qualche parte. 

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