martedì 19 dicembre 2017

Dubravka Ugrešić

Scriveva Josip Osti, lo straordinario poeta del Libro dei morti di Sarajevo: “Non chiedere se questa guerra è realtà, o un ricordo del passato”. Il tempo nei Balcani ha sempre avuto un valore storico biunivoco. Bisogna ricordare per esistere. Bisogna dimenticare per sopravvivere. Solo in apparenza è una contraddizione: la frammentazione politica, territoriale e umana che ha generato la migrazione e l’esilio di interi popoli, a partire dai loro intellettuali, Dubravka Ugrešić compresa, nasce proprio dalla rottura di quel difficile, se non impossibile, equilibrio tra memoria ed oblio. Lo sforzo in Il museo della resa incondizionata è apprezzabile perché rende alla perfezione il momento del collasso visto che Dubravka Ugrešić è una scrittrice con il gusto maniacale del particolare, del dettaglio, dell’infinitesimale e nel suo essere straniera riesce veramente a vedere “l’oscurità del mondo”, come la definisce Joseph Brodskij. Madre, figlia, amiche, donne: i ricordi si intrecciano partendo da un’immagine scolorita e seguendo i percorsi di un esilio infinito dato che “la vita non è altro che un album di fotografie. Solo quel che c’è nell’album esiste. Quello che nell’album manca, non è nemmeno accaduto”. La conclusione a cui giunge Dubravka Ugrešić è che “la creazione della realtà è l’attività della vera letteratura” e la responsabilità di supplire a ciò che manca è implicita nella connotazione che determina Il museo della resa incondizionata. Compresa l’apologia del dilettante, un passaggio quanto mai utile per comprendere la predisposizione (molto istintiva) di Dubravka Ugrešić: “Il vantaggio del dilettantismo rispetto al professionismo (chiamiamolo così in mancanza di un termine migliore), o addirittura la differenza tra i due, è contenuta in un determinato punto di dolore indefinito, dolore che l’opera amatoriale, come le percezioni extrasensoriali, può centrare suscitando di conseguenza un’identica sensazione nell’osservatore o nel lettore. Le sontuose strategie della cosiddetta opera d’arte raramente centrano tale punto. Il punto di dolore è meta casuale solo dei beati dilettanti, meta che unicamente loro, senza nemmeno sapere di che si tratti, riescono a centrare”. Allora è un’immagine, un’istantanea, il tentativo di fissare un attimo, anche nell’infinita terra di nessuno dell’esilio europeo: “E d’un tratto mi venne in mente che a Lisbona avevo comprato un biglietto della lotteria e vinto un raro premio: la momentanea sensazione che niente, in realtà, è perduto, che perciò non c’è motivo di lamentarsi, che tutto esiste da qualche parte, così come noi esistiamo sparpagliati in ogni dove, che tutto da qualche parte si somma, che tutto è collegato”. Se bastasse una piccola epifania, sarebbe tutto risolto: il limite intrinseco è che Il museo della resa incondizionata si attorciglia attorno alle immagini, ai ricordi, persino ai sogni (“Il sogno è un campo magnetico che attira immagini dal passato, dal presente e dal futuro”) e tutto ciò è insieme metafora e realtà dell’esilio, che diventa una gabbia decadente, e a tratti anche autoreferenziale. Un libro, sì, “prezioso”, come ha detto qualcuno, ed è vero come scrive Predrag Matvejević nell’introduzione, che “la letteratura non ha l’obbligo di dare giudizi”, ma avrebbe anche tutte le potenzialità per ripristinare l’equilibrio tra oblio e memoria che qui, nelle floride pagine di Dubravka Ugrešić, si perdono attorno ad una fotografia ingiallita, un ricordo che non serve più.

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