sabato 16 dicembre 2017

Ben Watt

Ricoverato d’urgenza con lancinanti dolori addominali, Ben Watt, musicista inglese noto ai più per la collaborazione con la moglie Tracey Thorn negli Everything But The Girl, si deve confrontare con gli orizzonti della malattia e del dolore. Una condizione aggravata da un paio di variabili specifiche. A prima vista, il suo “caso speciale” non sfugge ai luoghi comuni legati ai vizi e agli abusi dei musicisti e perfino una frettolosa analisi del fratello gli ribadisce che è tutto colpa di un “modo di vivere privo di senso”. D’altra parte, nonostante una lunga teoria di esami, tutto quello che il personale medico riesce a scoprire è un “disordine multisistemico”, definizione tanto elaborata quanto vaga. Inchiodato nel suo letto, diventa Un paziente nel senso più intimo della parola. Nella sopportazione quotidiana, nell’osservare la mutazione dei rapporti e dei legami, nel turbinio dei pensieri, Ben Watt ricorda: “Mi sembrava di essere una creatura in metamorfosi, che passa dalla vita sott’acqua a quella sulla terraferma, sviluppando una nuova identità. Ed era già come se navigassi verso qualche altra parte. Il mio senso dello spazio e del tempo pareva regredire. La minaccia invisibile che mi teneva lì bloccato e il desiderio di andarmene via si erano allentati. Adesso tutto ciò che mi interessava era rendere le cose sopportabili per i successivi venti minuti o giù di lì”. Ci vogliono diverse settimane prima che gli venga diagnosticata “una malattia autoimmune chiamata sindrome di Churg Strauss, un disturbo piuttosto raro che colpiva individui con trascorsi d’asma e febbre da fieno i cui sistemi immunitari imprevedibilmente e in modo violento reagivano dopo un ulteriore ma non necessariamente collegata, stimolazione antigenica”. Sottoposto a diverse operazioni chirurgiche (all’intestino), a diete e terapie, Ben Watt passa in ospedale tutta l’estate del 1992 e Un paziente non è soltanto il diario dettagliato e puntiglioso della degenza, quando doveva combattere con tutta la terminologia scientifica, le preoccupanti visioni del futuro e lo spasmodico desiderio di “essere in qualche campo all’aperto in estate, col cielo sopra la mia testa, e Tracey (Thorn) che mi correva davanti, fuori dal tempo reale”. Con grazia, a volte addirittura con ironia, è una riflessione sulla nostra fragilità, di solito nascosta da “un differente ritmo che si svolge dentro le nostre teste in continuazione, un flusso continuo, una corrente di pensieri e parole, che vociano e rimbalzano nel nostro cranio per tutte le ore di veglia”. Costretto a spogliarsi (metaforicamente e non), indifeso, debole, annoiato, a Ben Watt, e per esteso a tutti i “pazienti”, resta un’unica protezione nell’elogio della normalità fino a quando un senso non giunge “dalla solitudine e dalla calma, dall’accettazione, dall’adattabilità, dalla gratitudine e dal fare pace con se stessi”. Al libro manca soltanto il lieto fine: dopo essersi ristabilito, Ben Watt ha ripreso e ampliato le sue attività discografiche, pubblicando tra l’altro uno dei suoi album più belli in assoluto, Fever Dream.

Nessun commento:

Posta un commento