La bellezza e l’orrore è un ardito esperimento letterario che coinvolge un coro tragico di voci attraverso diari, epistolari, frammenti di ogni genere e specie per ricostruire quello che Peter Englund chiama “un universo emotivo” generato dalla prima guerra mondiale. Per sua stessa preliminare ammissione, “in poche parole questo è un pezzo di antistoria, in quanto ho cercato di ricondurre un evento epocale alle sue componenti minime, atomiche: il singolo essere umano e il suo vissuto”. Seguendo “diciannove destini” di ogni nazionalità e su tutti i fronti, dal semplice fante all’ufficiale di cavalleria, dallo sconosciuto funzionario a Robert Musil, la metanarrativa di Peter Englund tende a scoprire che “la guerra li priva di qualcosa: della giovinezza, delle illusioni, della speranza, dell’umanità. Della vita”. L’insistente crescendo con cui La bellezza e l’orrore si fa avvolgente e senza via d’uscita è determinato dalle voci reali, ricreate attingendo dai documenti lasciati sul campo. Scrive Edward Mousley, ventun anni, artigliere neozelandese dell’esercito britannico in Mesopotamia: “Le esperienze personali, in questa cosa chiamata guerra, consistono nella migliore delle ipotesi nel risveglio del ricordo di un sogno incomprensibile e confuso. Alcuni eventi singoli emergono in modo un po’ più distinto di altri, con la chiarezza conferita dall’intensità del coinvolgimento personale. Poi anche gli episodi più pericolosi diventano cibo quotidiano, finché i giorni sembrano susseguirsi senza contenere nulla d’interesse che non sia la continua imminenza della morte. E anche quest’idea, sebbene imperativa all’inizio, viene rimossa in quanto grandezza sempre presente e per questo trascurabile. Sono fermamente convinto che ci si possa stancare di un’emozione”. Reggimenti dispersi, città che bruciano, navi inghiottite nell’oceano, un’intera generazione di giovani divorata nelle trincee, la violenza trasformata in “in norma”, l’umanità scomparsa, al punto che l’alpino dell’esercito italiano, Paolo Monelli, ventitré anni si chiede: “Per chi morto? I viventi frettolosi non sanno più nulla di te, i viventi abituati alla guerra come a un ritmo più celere di vita, i viventi che non credono di dover morire. Come se la tua morte non abbia soltanto chiusa la tua vita, ma l’abbia annullata. Rimani un po’ di tempo elemento numerico nello specchio del furiere, argomento patetico nel discorso che ti rammemori: ma tu, uomo, non sei ed è come se non fossi stato mai. C’è del carbonio e dell’acido solfidrico sotto a noi, coperto da un mucchio di stracci, uniformi; e ciò chiamiamo morti”. Alla stessa conclusione arriva Elfriede Kuhr, scolara tedesca di dodici anni: “Questa guerra è un fantasma vestito di stracci grigi, un teschio da cui spuntano vermi”. È molto peggio, e Peter Englund non manca di tracciarne le assurdità, i paradossi, gli abbagli, le mostruosità, insinuando persino, al di là di ogni retorica, come la guerra sia servita a mantenere un pericolante status quo, come peraltro annota anche Michel Corday all’inizio dell’ultimo anno di guerra: “Siamo davvero allo scontro aperto tra il popolo e i suoi governanti, quel popolo che pretende di sapere perché i governanti lo costringono a combattere”. Per tutti gli altri, resta soltanto quella che René Arnaud definisce “un’amara soddisfazione al pensiero di aver fatto quello che andava fatto”. Non basterà, e il colpo di scena finale con cui si chiude La bellezza e l’orrore, fa capire come nel futuro generato dalla prima guerra mondiale, resterà soltanto la seconda parte del titolo, elevato alla massima potenza.
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