Dall’alto del castello di Beaufort, una vista incantevole si allarga a comprendere gran parte del Libano meridionale fino al confine con Israele: un panorama di pendii ondulati e frutteti e strade che si snodano attorno alle colline e dentro a piccole valli. Una posizione strategica, tanto è vero che nel corso dei secoli è passata di mano in mano, dai crociati ai templari, dai mamelucchi agli ottomani, dai francesi ai palestinesi finché non è stata occupata, nel 1982, dagli israeliani che l’hanno tenuta fino al maggio del 2000 e quindi “benvenuti. Se esiste il paradiso, il panorama è questo, se esiste l’inferno, ci si vive così. Ecco a voi l’avamposto di Beaufort”. Nella fortezza è protagonista una pattuglia di soldati guidati da Erez, che ha un’indole esuberante, poco propensa a considerare l’obbedienza una virtù e sempre in cerca di guai. Un “profilo problematico” per l’esercito a cui viene affidata una missione senza possibilità di equivoco: “Nessuno pretende da te dei terroristi; non vogliamo scontri. Tu hai un solo obiettivo: sei salito qui con tredici soldati, e voglio che tu scenda con tredici soldati sani e salvi, senza un graffio, tutto qui”. La consegna contiene tutti i paradossi del Beaufort: fare da bersaglio e cercare di sopravvivere, restare immobili ed essere pronti a scattare, aspettare di partire e aspettare di arrivare. Per la sua conformazione, gli alloggi del Beaufort fanno vivere i 13 soldati in una promiscuità tale che “a occhi chiusi sei in grado di sapere in qualunque istante chi ha scoreggiato dal semplice odore. È questo il metro della vera amicizia”. Ron Leshem si immerge proprio nei sotterranei, nei rifugi, nei sentieri senza alcun filtro e il romanzo è monolitico come la ridotta Beaufort: con il ritmo serrato scandito da una parte dal linguaggio della burocrazia militare (comprese le sigle delle armi a punteggiare ogni singola frase) e dall’altra dal gergo dei 13 soldati che devono scontare turni di guardia di sedici ore, pattugliamenti, scontri a fuoco, granate in arrivo e in partenza, e lunghi momenti di inerzia e di stanchezza finché non giungono alla conclusione che “l’odio è un’ottima soluzione contro la noia”. Le dinamiche che regolano e condizionano la vita al Beaufort sono sempre state quelle della guerra, solo che nel tempo “tutto è diventato più bestiale, ma anche più indifferente” e Ron Leshem riproduce, collegando ogni singola voce, un’orchestrazione cacofonica che, in effetti, David Grossman ha definito “un mondo intero” sul quale, alla fine, cala un inequivocabile epitaffio: “È una follia, è troppo una follia. Apri gli occhi. Sono mille anni che la gente muore su questa montagna, non è arrivato il momento di piantarla. Giuro, non è mica ragionevole, non ha senso che esista, un posto del genere, ’sto Beaufort. Dai retta a me, non esiste. Siamo rimasti tutti bloccati in un incubo, per sbaglio”. È una terra di nessuno minata dai dubbi, più che dagli esplosivi, perché i 13 soldati interpretano in fondo l’incertezza e la delusione nel momento in cui devono passare dall’assedio alla ritirata, che dovrebbe essere una sconfitta, “ma vallo a sapere; magari invece una volta che tutto sarà finito ci chiederemo come mai non hanno pensato a questo ripiegamento qualche anno prima, perché ci siamo immersi nella tattica senza considerare la strategia. Non è semplice, non è per niente semplice”. 13 soldati è un romanzo spigoloso, abrasivo e inafferrabile, che fissa la guerra da vicino, non distoglie lo sguardo e ricorda, per la cronaca, che alla fine il Beaufort è stato fatto saltare in aria con quasi mille mine, lasciando in eredità soltanto pietre e polvere.
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