giovedì 19 luglio 2018

Simin Daneshvar

In Storia dell’Iran 1890-2008, Farian Sabahi descrive così Suvashun: “Tra il 1941 e il 1945, nell’Iran occupato dai sovietici e dai britannici, è ambientata la saga familiare Suvashun, opera della nota scrittrice Simin Daneshvar pubblicata nel 1969. I protagonisti di questo romanzo sono i membri di una famiglia della classe media, proprietari di terre a Shiraz. Gli eventi sono raccontati in prima persona da Zari, giovane moglie e madre preoccupata per il marito e i figli, che riporta i fatti, tra cui la carestia e la formazione del partito comunista Tudeh, narrati da coloro che vanno a trovarla”. La sintesi è breve, efficace e pertinente soprattutto se si aggiunge che dopo la duplice invasione, “il paese era di nuovo diviso territorialmente, le minoranze riproponevano le loro pretese di indipendenza, l’economia era allo sfascio e nel 1941-1943 l’inflazione raggiunse il 300%”. È il difficile contesto in cui si svolge Suvashun e che proprio la principale protagonista, Zari, interpreta così: “Io sapevo che a poco a poco stavamo perdendo qualcosa che ci apparteneva, ma non capivo di cosa si trattasse”. A Shiraz, Zari perde  i preziosi orecchini, dono della suocera, perché li vuole Gilantaj, la capricciosa figlia del governatore che poi insiste per avere anche il cavallo del figlio Yusuf. Sono soltanto gli inizi di quel fitto intreccio di tradizioni e di ricordi che si sovrappongono e si alternano in Suvashun, dove l’Iran è una terra di giardini, di profumi e di mutevoli umori, un universo di sapori, di passioni e di racconti e di versi che si incastrano uno nell’altro senza soluzione di continuità. In questo flusso affascinante e ipnotico, l’eleganza barocca della scrittura di Simin Daneshvar non nasconde i fortissimi contrasti mai, a partire dai ruoli femminili. Le donne, per quanto assoggettate, sono il fulcro della vita a Shiraz ed è proprio la figura (centrale) di Zari a emergere con forza e determinazione lungo l’arco di tutto il romanzo. Madre di quattro figli (e un quinto in arrivo) e moglie di Yusuf, ne asseconda il tentativo di restare fedeli a una dignitosa normalità nel caos dell’occupazione inglese, della sollevazione delle tribù e nella confusione generale, dove una parte non indifferente nel paese riesce a credere che Hitler sia il tanto atteso profeta. La convinzione che sorregge Zari è che “le montagne non s’incontrano, ma gli uomini sì” e la fiducia nel marito è tale da non vedere l’incombere della tragedia. Succede perché, come dice ’Abdollah Khan, il fidato medico di Zari, “questo mondo è come una camera oscura dove le foto sono rovesciate e tutti noi girovaghiamo alla cieca”. La coincidenza letteraria vuole che Zari riveli in un aneddoto scolastico di aver letto John Milton e sapendo dunque che “ciò che in me è oscuro illumina” svela come l’atmosfera fiabesca abbia nascosto un conflitto latente che poi si trasformerà in uno scontro aperto. A quel punto il ruolo dei rituali, delle cerimonie e delle storie deflagra nel finale quando il lamento funebre rappresentato dal titolo celebra e anticipa svolte e rivolte che hanno determinato l’essenza dell’Iran moderno. Suvashun è la dimostrazione tangibile che, come dice ancora ’Abdollah Khan, “l’umanità è una storia e può divenire qualsiasi storia: dolce, amara, triste… Una storia eroica…”. Si può dire anche classica, nel senso più ampio del termine: le trame familiari all’interno della complessa posizione dell’Iran durante la seconda guerra mondiale sono una filigrana nitida e precisa per avvvicinarsi al Medio Oriente anche oggi, dove certe dinamiche geopolitiche restano immutabili dal tempo degli imperi e del colonialismo.

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