venerdì 6 luglio 2018

Jon Savage

I giovani non sono sempre esistiti. Una volta, almeno due secoli fa, la gioventù era considerata un momento di transizione, un’età che si consumava in fretta, un rito di passaggio, un terra di nessuno in cui erano permesse l’allegria e la follia. E’ stato tra le due guerre mondiali, nella prima metà del ventesimo secolo, che l’invenzione della gioventù ha preso forma ed è diventata una realtà concreta, indipendente, riconosciuta. La costruzione di un modello ideale di gioventù (che spesso coincide con un ideale di bellezza) comincia con un vero e proprio genocidio di giovani, quello perpretato nella prima guerra mondiale (soprattutto) e poi nella sua diretta continuazione (la seconda). La parte iniziale del saggio di Jon Savage va in profondità, sui motivi e sui condizionamenti che hanno portato un’intera generazione a morire (volontaria, in guerra) per due volte consecutive, spronati da esortazioni come quella di Von der Goltz: “Solo i giovani si separano senza spasimi dalla vita. Non sono ancora avvinti a questa terra dai mille legami con cui la vita civile ci imprigiona. Non hanno ancora imparato a lesinare le ore della vita. L’enigma che sono curiosi di risolvere è ancora lì davanti come un libro chiuso. Scalano la collina senza immaginare il brusco precipizio dall’altra parte. Il loro amore per l’avventura esalta questa voglia di battaglia”. L’allucinante retorica militarista (affiancata da una complessa e impressionante macchina che generava il culto dei giovani eroi senza sosta) ebbe senza dubbio la responsabilità dell’olocausto giovanile nelle trincee della prima guerra mondiale, ma gettò anche le basi per l’invenzione della gioventù. Jon Savage sintetizza così quell’esordio sanguinoso: “La gioventù, arruolata nella nuova ideologia radicale basata sull’uguaglianza, diventò da un lato una fonte di speranza e un simbolo del futuro e dall’altro una falange instabile e pericolosa”. L’America arriva nella fase successiva: mentre nella Germania nazista i giovani venivano inquadrati in formazioni paramilitari (e poi direttamente nell’esercito per il nuovo, grande massacro della seconda guerra mondiale) in America imparavano a saltare su un treno e a scappare di casa, scoprivano lo swing (“Lo swing non era soltanto musica e libertà fisica, era una liberazione assia più profonda in tutte le sue forme: la vera emancipazione, non solo dei musicisti neri pionieri dello stile ma anche dei teens la cui maturità era preannunciata da questa musica”) e, più di tutto, si rendevano conto di avere una voce propria (“Vogliamo lavorare, produrre, costruire, ma milioni di noi sono costretti all’ozio. Noi ci diplomiamo e laureiamo, ci prepariamo per una carriera e una professione, ma non c’è lavoro. Rischiamo di trovarci su una strada o in un campo diretto dall’esercito, isolati dagli amici e dalla famiglia. Ci rifiutiamo di essere la generazione perduta”). Dai boys scouts alla a droga (nello specifico la cocaina), Jon Savage non esita a divagare nel raccontare dettaglio per dettaglio usi e costumi della nascente gioventù che, con il crescere della produzione industriale legata all’economia di guerra e con l’espandersi dei mercati compì il passo da bersaglio a target. La definizione di Jon Savage in questo specifico saliente è molto precisa ed esauriente (come del resto in tutto il libro): “Visto che contentavano sia il credo economico sia i bisogni, i sogni cominciarono a definire l’America. Le visioni diventavano denaro, assumevano forma tangibile nei parchi a tema, nei cinetoscopi, nei tabloid, nei bestseller, negli spartiti e nella pletora di beni di consumo che potevi trovare nei grandi magazzini o sui cataloghi postali. Tutti questi nuovi prodotti offrivano una fuga immediata dalle ristrettezze della realtà quotidiana, una consolazione per le libertà perdute e una celebrazione dello stile di vita metropolitano. La salvezza stava nel consumo: diventavi quello che compravi. E si compravano i sogni”. E’ chiaro che l’analisi di Jon Savage cerca di visualizzare una forma sociale (o persino un’area) inesistente, a tutta la prima metà del ventesimo secolo. Un lavoro inestimabile perché già non è facile, per usare un eufemismo, descrivere e raccontare una fascia sociale ed è ancora più impervio il percorso per narrare quella che è anche una fase (evolutiva) della vita, per qualsiasi condizione. Jon Savage non solo ha fatto entrambe le cose, ma le contestualizzate nei momenti storici (drammatici) in cui prendevano forma. Senza tralasciare nulla. Monumentale.

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