
mercoledì 28 febbraio 2018
Vladimir Jokanović

martedì 27 febbraio 2018
Maurice G. Dantec
Maurice Dantec colpisce con un romanzo che fa di tutto per depistare il lettore, ma che nello stesso tempo lo rifornisce in continuazione di informazioni perché non perda di vista il nucleo centrale della storia, il nocciolo della questione, il big bang esistenziale nascosto tra le righe. Hugo Cornélius Toorop, personaggio ben noto agli aficionados di Dante, è incaricato da un ramo della mafia siberiana di portare in Canada e proteggere tale Marie Zorn, una ragazza che nasconde nel suo corpo qualche insondabile segreto. Siamo in un futuro abbastanza vicino e “il tempo passa molto in fretta”, come se fosse una variabile ormai impazzita. Non è l’unica: nel caos imperante di Babylon Babies, tra orrende sette religiose e bande di bikers, robot omosessuali che si suicidano perché non riescono a confrontarsi con la propria identità e un cane mutante di nome Springsteen, le forme di vita più rassicuranti sono i mostri che popolano le visioni di Toorop. Lui è l’essere umano troppo umano il cui ruolo sembra essere essenzialmente quello del testimone o di punto di riferimento per il lettore nel torrenziale diluvio di Babylon Babies, che è una vera e propria information overload letteraria. È un libro che forse offre anche l’occasione per chiederci che tipo di informazioni vogliamo da un romanzo, perché ci si trova in un bazar dove c’è di tutto: dalla fantascienza al thriller passando attraverso psicologia, biologia, antropologia, geopolitica, spionaggio e depistaggi assortiti, videogame e riti sciamani. A prima vista sembrerebbe Matrix in versione carta e inchiostro, ma dietro i fuochi d’artificio di Dantec si cela quello che è, in fondo, il tema essenziale di Babylon Babies, ovvero, per dirla con le parole dei suoi personaggi, quella “infinita varietà mutagena del principio comunemente chiamato identità”. Per arrivarci, con non poca soddisfazione, il lettore deve tenere il ritmo forsennato imposto dall’autore, non lasciarsi distrarre dalle mille bizzarrie tecnologiche di cui è disseminato il romanzo e nello stesso tempo cercare di non perdere i collegamenti principali della storia, che altro non è se non la memoria di tutte le identità che la attraversano. E basta una frase a spiegarlo: “Quel che conta, se ho capito bene, è che tutto sia scritto. E letto. Anche se da una sola mente. Che, va da sé, non sia quella dell’autore”. Troppo vero. Memorabile l’incipit: “Vivere era allora un’esperienza incredibile, nella quale il più bel giorno della tua esistenza poteva rivelarsi l’ultimo, oppure dormire insieme alla morte ti garantiva di vedere il mattino seguente, e nella quale alcune regole d’oro si imponevano con fermezza: mai camminare nel senso del vento, mai voltare la schiena a una finestra, mai dormire due volte di seguito nello stesso posto, rimanere sempre nell’asse del sole, non aver fiducia in niente e nessuno, trattenere il respiro con la classe del mortovivente al momento di estrarre il ferro salvatore. Qualche variante poteva di volta in volta aggiustarsi, la posizione del sole in cielo, il tempo che faceva, e con chi si aveva a che fare”. Da lì in poi, è una cascata da affrontare senza esitazioni.
lunedì 26 febbraio 2018
Tim Winton
Qualcuno ha scritto che con questo libro Tim Winton ha prodotto un capolavoro dello storytelling. Dal canto suo, Thomas Keneally ha usato parole sensazionali per descrivere questo romanzo. Un altro scrittore, Rick Bass, che qualcuno ricorderà come autore del bucolico Un inverno nel montana ha detto che I cavalieri è “un libro stupendamente scritto che porta una vecchia storia verso nuove terre”. In realtà si tratta di un viaggio molto più complesso che parte e finisce nella mente di Fred Scully: la moglie è scomparsa, anzi svanita nel nulla, e la figlia non ha più parole per raccontargli come o perché. Lei e il padre s’incontrano in uno dei luoghi più ameni possibili, la hall di un aeroporto, e da lì partono per un’odissea tutta europea, scandita dalle strofe di Raglan Road, una canzone adatta a non dimenticare l’Australia. Mentre seguono fantasmi e ricordi vagabondando tra Parigi, Firenze, la Grecia e l’Irlanda, una storia sembra sfumare dentro un’altra, sfociando nel dramma dark inaugurato dalla visione gotica di una ventina di cavalieri in una novella d’amore. La danza degli spettri a quel punto incombe e diventa imperativo decidere “quanta distanza si vuole mantenere da loro, chiedendosi quante che sarà abbastanza, chiedendosi perché fa così male, il desiderio”. La dimensione visionaria si intromette con prepotenza, e accompagna verso snodi inesplorati che però trovano un’adeguata collocazione, se non proprio un’armonia, nella complessità della trama. Sempre brillante e seducente, I cavalieri è sicuramente il romanzo più ambizioso di Tim Winton per la ricchezza dei temi che s’intersecano (non ultimo il rapporto tra padre e figlia), per il coraggio di affrontare paesaggi distanti (e non solo geograficamente) e per l’equilibrio che gli garantisce comunque una certa leggerezza, anche quando la vita dei suoi personaggi è drammaticamente in cerca di una seconda chance e tutto quello che riescono a vedere è “all’orizzonte un pesce solitario, grande quanto un uomo schizza in aria con gli neri di paura mentre cerca di sfuggire al suo persecutore. Non finisce mai”. Quest’aria frizzante dipende dalla tante note musicali che si sentono salire pagina dopo pagina (e non per niente la processione è inaugurata da Tom Waits) dagli angoli delle strade, da qualche vecchio motivo che continua a tornare in mente, da un walkman che non manca mai. La musica per caso di Tim Winton funziona proprio così: apre piccole crepe nel romanzo e lascia filtrare l’immaginazione del lettore. Ormai verso il finale, tra l’altro, questo eccellente narratore con il volto dell’eterno bravo ragazzo si è divertito a infilare un paio di nomi emblematici. In forma di cassette acquistate nel più grande magazzino di Parigi, compaiono al momento giusto, Ry Cooder e gli Hoodoo Gurus. Il primo potrebbe essere Paris, Texas ed è fin troppo facile trovare una spontanea assonanza con I cavalieri. I secondi restano una divertentissima rock’n’roll band (australiana, per la precisione) che soltanto un autore curioso e per niente ridondante come Tim Winton poteva evocare.
martedì 20 febbraio 2018
Miyamoto Teru
Il periodo sottinteso dai racconti di Bagliori fatui, dal 1978 al 1988 è un segmento della storia giapponese dominato da una grande bolla speculativa, generata a sua volta dall’irruenza dell’espansione economica seguita all’apocalisse della seconda guerra mondiale. Una fase di transizione complessa che si trasformerà in una lunga e tortuosa crisi. I personaggi di Bagliori fatui sono troppo deboli o troppo scettici per credere nei miracoli del mercato che, nella sua folle corsa, li lascia ai margini, in piccole cittadine di provincia, come scorie, residui, sfridi di un processo di selezione inevitabile. La prima frattura avviene tra genitori e figli perché l’evanescente percezione del futuro divarica le naturali distanze ed è così evidente in Forza vitale, che funziona un po’ da prologo, da apparire conseguente in Vendetta. Se in Forza vitale padri e madri sono problematici e incomprensibili nelle loro frustrazioni, in Vendetta, un istruttore di judo subisce le ritorsioni di un suo ex allievo, nel frattempo diventato membro della yakuza, per le pene inflitte a lui e ai suoi amici. Da un racconto all’altro, e sono tutti concatenati da dettagli, atmosfere, frammenti e da una sottile luce crepuscolare, c’è un rimbalzo continuo delle responsabilità per le drammatiche condizioni di vita. Succede nelle lancinanti storie di Morire e rinascere migliaia di volte al giorno, e Sulle scale in cui nelle “case dei poveri” prende forma lo straordinario inventario di sofferenze di una classe operaia devastata, limitata nelle aspirazioni, assorbita dalla propria solitudine, incapace di uscire dall’angolo. Spesso accompagnata dall’alcol, l’unica prospettiva è una lenta dissolvenza che si snoda spontanea e naturale in Bagliori fatui, lo straziante racconto centrale. Una sorta di monologo che si inoltra a scoprire profondità sconosciute del dolore, della malattia, del disorientamento richiamati ancora in La matita per le sopracciglia, Il mistero dei pomodori e La notte dei ciliegi e che sono le vere insidie nascoste sotto la superficie scintillante dell’impetuoso progresso industriale e delle ambizioni nazionali. Qualcosa che non ha prezzo e che il mercato non può nemmeno considerare: una condizione drammatica vissuta con una particolare discrezione nipponica, persino con gentilezza, come ricorda la stessa protagonista di Bagliori fatui: “Scrivevo a mia madre all’incirca una volta al mese per metterla al corrente di quella che un tantino esagerando le descrivevo come una vita felice”. Per Miyamoto Teru il dolore non è soltanto un’espressione individuale e nei racconti di Bagliori fatui è chiaro che emerge dove uomini, donne e i traballanti nuclei famigliari che compongono sono schiacciati dall’assenza di prospettive, dall’infelicità, dalla durissima lotta per la sopravvivenza. Un certo “sollievo” è il massimo a cui possono ambire: si accontentano di una fragile tregua con la vita che vuol dire, in genere, un dignitoso armistizio con i ricordi e i fantasmi che li perseguitano dall’infanzia. Quasi come una forma di estremo rispetto nei loro confronti, Miyamoto Teru non si concede alcuna divagazione stilistica: la scrittura è tutta concentrata sulle storie, scarna e livida come le notti insonni sui tatami, concisa nella forma e limata parola per parola nel compilare i cahiers de doléances di un mondo invisibile, evocato a partire dal titolo.
lunedì 19 febbraio 2018
Fernando Pessoa

giovedì 15 febbraio 2018
Salman Rushdie

martedì 13 febbraio 2018
Lev Tolstoj
L’accordo di terza che Tolstoj evidenzia a più riprese mentre La tempesta di neve infuria senza sosta è qualcosa in più di un intervallo musicale. Se nello specifico definisce la tonalità, quindi l’ambito stesso della melodia, nel contesto narrativo riporta ad altri due straordinari protagonisti del diciannovesimo secolo, Schubert e Beethoven, nelle cui opere (in particolare nella Sinfonia incompiuta e nella Quinta sinfonia) si sente risuonare la terza. La tempesta di neve è sottolineata da una coesione di elementi che ricorda da vicino un’orchestra nella mente di Tolstoj. Un breve viaggio in slitta si trasforma in un’epica traversata dentro una tormenta alimentata da un vento gelido e da “una neve asciutta e minuta” imperversa senza sosta. Il movimento della trasferta in sé è il bordone, necessario ma nascosto nelle retrovie, tanto è vero che Tolstoj non approfondisce i motivi di quel “vagabondaggio”, e lascia inespressi anche molti dettagli dei personaggi. Sappiamo che partono con un’aria tiepida, anche se il cielo senza stelle è una premonizione da non trascurare, e che si ritrovano a dover inseguire il suono delle campanelle (accordate in terza) delle carovane postali. Non ci si può fermare e il ritmo è ossessivo, per quanto la principale sensazione che La tempesta di neve induce sia quella dell’immobilità. La tormenta nella steppa genera una condizione particolare, che induce al disorientamento e alla perdita della cognizione delle coordinate dello spazio e del tempo. La destinazione rimane avvolta in un mistero fatto di luce invisibile e di un’oscurità opprimente. Il freddo, la mancanza di punti di riferimento e e l’inevitabile accento di fatalismo portano il viaggiatore prima a considerare che “in compagnia anche la morte è bella” e poi a lasciarsi trasportare in una dimensione onirica, ricostruendo il ricordo di un’estate con “una sensazione d’ingenua soddisfazione e di tristezza”. Il passaggio che sposta La tempesta di neve è il capolavoro della narrazione di Tolstoj, anche qui “omerica per ambientazione, shakespeariana per caratterizzazione”, come ha scritto Harold Bloom a proposito di Chadži-Murat. Un inciso che è un racconto scavato per contrasti dentro La tempesta di neve: i più superficiali e immediato sono il calore contro il gelo, le voci rispetto al silenzio, uno stagno agli antipodi dell’aria ghiacciata, la folla invece della solitudine. La differenza, che nel contempo divide e unisce i due racconti, è nella visione tra sogno e memoria: la morte è già passata, mentre è evocata, temuta, annunciata mentre La tempesta di neve segue il suo corso. Persino ambita dal viaggiatore sempre più sperduto: “Confesso che, pur avendo qualche paura, il desiderio che ci accadesse qualcosa d’insolito, un poco tragico, era in me più forte del timore. Mi sembrava che non sarebbe stato male se verso il mattino i cavalli ci avessero portati da sé, a metà assiderati, in qualche lontano, ignoto villaggio, e se anche qualcuno di noi fosse gelato completamente”. Anche nella coda finale, Tolstoj non concede nulla e le campanelle delle altre carrozze continuano a suonare la solita nenia. Non basteranno comunque per salvarsi dalla bufera: per uscirne dovranno seguire le tracce di sangue dei cavalli devastati a colpi di frusta, una scena che Tolstoj interpreta come se fosse l’assolo finale, alla perfezione. E qui è indispensabile ricordare quello che scriveva in occasione di un passaggio di Anna Karenina che coincide con La tempesta di neve per l’anno (1856) e il suo (identico) svolgimento: “Ora tutto l’orrore della tormenta pareva ancora più bello”. Enigmatico.
domenica 11 febbraio 2018
Jean Echenoz

sabato 10 febbraio 2018
John Berger
Contro i nuovi tiranni raccoglie una selezione di riflessioni che attraversa più di mezzo secolo ed è l’espressione migliore del dono di John Berger che Salman Rushdie individuava nella “sua abilità di aiutarci a comprendere come ciò che vediamo possa venire manipolato”. “Non c’è alternativa”, uno slogan che risale all’epoca di Margaret Thatcher, è il tema ricorrente di una nuova forma di tirannia, più subdola, elegante e accurata, ma i cui effetti non sempre sono visibili e comprensibili, come avverte fin dall’inizio John Berger: “Osservate la struttura del potere del mondo senza precedenti che ci circonda, e come funziona la sua autorità. Ogni tirannia scopre e improvvisa il proprio insieme di controlli. Ed è per questo che spesso, al principio, non li si ravvisa per quei controlli viscosi che sono”. Il despota supremo, il deus ex machina dell’era moderna è il mercato che “punteggia le nostre vite con la regolarità e la sistematicità di un ciclo di preghiere in seminario. Trasfigura il prodotto o la confezione in vendita in modo da conferirgli un’aura, dotarlo di una radiosità, che promette una specie di temporanea immunità dalla sofferenza, una sorta di salvezza provvisoria, l’atto salvifico restando sempre quello dell’acquisto”. L’elemento taumaturgico non è casuale (ancora una volta, il segnale è: non c’è altra possibilità) perché “le promesse sono mute e fisiche. Alcune sono visibili, altre tangibili, certe si possono udire, altre gustare. Altre ancora non sono che messaggi in un impulso” e, più di tutto, “il mercato esige che consumatori e dipendenti siano assolutamente soli al presente”. Lo strumento principale per raggiungere questa dimensione è la contrazione della comunicazione: impressioni invece di esperienza, assenza di una visione d’insieme, formule senza pensiero. John Berger va in direzione opposta e contraria, con convinzione: il suo modo di vedere è uno sguardo ravvicinato, sentito, scrupoloso. Ha qualcosa di matematico nell’approccio e nella cadenza, ma è molto umano. La sua voce è moderna, sensibile, acuta. È una lingua diretta, senza fronzoli, comprensibile ai più, sempre nell’ottica che “bisogna cercare di scrivere in modo che quanto si è scritto, anche se pensiamo che saranno in pochi a leggerlo, parli forte e chiaro ovunque lo leggano”. Con queste premesse, John Berger non ha mai temuto le sfide intellettuali, il confronto con impostazioni e temi complessi, ma sempre nell’ottica di un’estrema chiarezza perché l’oscurità delle informazioni è l’altra faccia dello sfrontato esercizio del potere. In questo, John Bergere è tanto esplicito quanto preciso: “L’atto di resistenza significa non soltanto rifiutare di accettare l’assurdità dell’immagine del mondo che ci è offerta, ma denunciarla. E quando l’inferno viene denunciato dall’interno, smette di essere inferno”. Detto questo, John Berger non ha mai rinunciato a nessuna delle sue prerogative: è uno storyteller, o meglio, “un osservatore appassionato di gesti, reazioni e comportamenti”, e non si immagina in un ruolo differente. Diceva, ancora nel 2001: “Scrivere sull’arte o la politica in fondo importa poco: qualunque cosa si scriva, si cerca di raccontare la storia della propria esistenza qui e in questo momento. L’arte è un punto di partenza per parlare dell’enigma del senso, della ricerca del senso nella vita umana. Lo si può fare raccontando una storia o scrivendo su un affresco di Giotto oppure studiando in che modo una lumaca arriva in cima a un muro”. Contro i nuovi tiranni è un’antologia comprensiva di gran parte delle visioni di John Berger e, nella sua essenza, è l’estensione della definizione che di lui dava Stephen Spender: “una sirena per la nebbia nella nebbia”. Più necessario che mai.
venerdì 2 febbraio 2018
António Lobo Antunes
Un monologo crepuscolare, amaro, senza via d’uscita, con una marea di whiskey per mettere una distanza di sicurezza con incubi che non se ne vogliono andare. Una lenta risacca di alcol, e “John Coltrane che soffia dentro il sassofono la sua dolce amarezza di angelo ubriaco” perché ci vuole ci vuole tempo che non c’è più e “bisogna premunirsi contro questa notte”. In culo al mondo riporta l’intera Angola come se fosse la Guernica del Portogallo nella voce di un veterano che ha visto troppo, fin dall’inizio: “Quando mi imbarcai per l’Angola a bordo di una nave carica di militari per diventare finalmente un uomo, la tribù riconoscente al governo che mi concedeva gratuitamente l’opportunità di una tale metamorfosi comparve compatta sul molo, rassegnandosi in un impeto di fervore patriottico a subire gli spintoni di una folla agitata e anonima, simile a quella del quadro della ghigliottina, venuta fin lì per assistere, impotente, alla sua stessa morte”. Forse è una confessione, senza colpevoli, le vittime ormai dimenticate nel dramma delle atrocità di una guerra coloniale di un impero agonizzante, e António Lobo Antunes la registra da vicino, senza correggerla, vivida e grezza nel suo snocciolare aspro, sanguigno, sommesso ma non arrendevole, convinto che “forse dovremmo portare tutti delle bretelle affinché l’anima non cascasse sui calcagni”. La condizione è estrema, nonostante l’atmosfera di casuale confidenza che si crea tra l’uomo e la donna che lo sta ascoltando, con la benevolenza degli estranei perché, nonostante il ritorno in patria, gli rimane la sensazione di essere rimbalzato in un altro esilio. Inseguito dallo sconforto e dagli spettri che non lo lasciano mai, prova a spiegarsi così: “Appartengo sicuramente a un altro luogo, non so bene quale, d’altronde, ma suppongo che questo luogo sia così lontano nel tempo e nello spazio che non potrò mai recuperarlo”. Mentre la luce beffarda dell’alba si avvicina, In culo al mondo comincia a svolgersi a colpi di frusta (“Cerchi di capirmi: apparteniamo a una paese dove l’abilità fa le veci del talento e l’ingegno fa le veci della forza creatrice, e penso spesso che non siamo altro che dei minorati mentali ingegnosi che riparano i guasti alle valvole dell’anima con rappezzi di fil di ferro”), alternando le ferite sanguinanti dell’Angola a improvvise eruzioni di passione e malinconia (“Ogni volta che si fissa troppo qualcuno, costui comincia ad acquisire a poco a poco non un aspetto familiare, ma un profilo postumo nobilitato dalla nostra fantasia che immagina la sua scomparsa. La simpatia, l’amicizia, perfino una certa tenerezza, diventano più facili, l’indulgenza arriva senza sforzo, l’idiozia acquista la seduzione amabile dell’ingenuità. In fondo, è evidente, è la nostra stessa morte che noi temiamo quando viviamo quella altrui, ed è davanti a essa e per via di essa che noi diventiamo remissivamente vigliacchi”) per arrivare alla conclusione, quando ormai si è fatto giorno che “no, davvero, la felicità, quella condizione che viene fuori dall’impossibile convergenza di parallele fra una digestione senza acidità e l’egoismo soddisfatto e privo di rimorsi, continua a sembrarmi, a me che appartengo alla dolorosa classe di gente inquieta e triste in eterna attesa di un’esplosione o di un miracolo, qualcosa di così astratto e strano come l’innocenza, la giustizia, l’onore, concetti magniloquenti, profondi e in fondo vuoti che la famiglia, la scuola, la catechesi e lo stato mi avevano solennemente rifilato per potermi domare meglio, per neutralizzare, se così posso esprimermi, ab ovo, i miei desideri di protesta e di rivolta. Ciò che gli altri esigono da noi, capisce?, è di non essere messi in causa, di non scuotere le loro vite in miniatura, murate contro la disperazione e la speranza, di non rompere i loro acquari abitati da pesci sordi che fluttuano nell’acqua limacciosa della quotidianità, illuminata dalla lampada sonnolenta di ciò che chiamiamo virtù e che consiste soltanto, vista da vicino, nella tiepida mancanza di ambizioni”. Quando arriva il giorno, lei se ne va. Lui rimane a svuotare i posacenere e a pulire i bicchieri, ormai vuoti, ma se chiude gli occhi rivede tutto daccapo. In culo al mondo non fa sconti.
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