Nelle Chiacchiere di un imbrattatele Paul Gauguin svolge l’apologia di una libertà che è “il diritto di tutto osare”. Anche se il tono è gioviale, spesso ilare e scoppiettante, il punto di vista è tranchant, proprio a partire dalla definizione di artista che “è un uomo superiore, e per questo del tutto in grado di comprendere la propria arte, e in seguito di paragonarla alle arti letterarie (nel caso il paragone fosse utile); o è un uomo inferiore di cui non c’è più motivo di occuparsi, cervello e volontà senza forza”. La distinzione è solo uno strumento preliminare, “capire tutto è bello, collegare tutto è meglio: ma anche creare è pur qualcosa”. La traduzione per Gauguin parte dalla specificità della sua arte quindi suggerisce che “saper disegnare non significa disegnare bene”, una prima, estrema distinzione che conduce necessariamente alla certezza che “l’artista si riconosce nella qualità della trasposizione”. Le sue “chiacchiere” diventano una specie di dizionario delle idee sulla pittura, un tentativo da rabdomante di elencare quelle emozioni di fronte a un’opera d’arte che “dipendono da molti fattori al di là della comprensione, così come è vero che una madre non trova mai il proprio figlio troppo sporco. È come dire anche che il critico deve, se vuole fare vera opera di critica, diffidare prima di tutto di se stesso, invece di cercare di ritrovarsi nell’opera”. In particolare, partendo dal fatto che “il pittore prende un modello come rappresentativo della leggenda: non sono gli attributi, il simbolo che ha in mano il modello, ad indicare la leggenda, bensì lo stile. Altrimenti è un gioco di prestigio per far credere di esserci riusciti. È proprio qui che il disegno comporta delle sfumature, passando dal possibile all’impossibile”, Paul Gauguin ricorda che “non è il sistema a fare il genio”, piuttosto una disposizione, un’attitudine, uno spirito che predilige le domande, i dubbi, l’osservazione, la contemplazione. In effetti, si chiede nel bel mezzo delle Chiacchiere di un imbrattatele: “Le idee sono come i sogni, un assemblaggio più o meno riuscito di cose o pensieri intravisti: sappiamo veramente da dove vengono?”. La domanda spiega poi il corso di quel metabolismo artistico che Antonin Artaud interpretava come un “ingrandire le cose della vita sino al mito”, ma che secondo lo stesso Gauguin si esprimeva a fondo nel trovare “un senso completamente diverso”, perché “se stati d’animo in cui ci troviamo hanno una grande influenza sulla nostra lettura, hanno anche, ma in modo più importante, un’influenza sulla nostra opera”. A quel punto il viatico per l’artista diventa anche l’unica morale a cui attenersi che Paul Gauguin declama così: “Non avere più moglie né figli che vi rinnegano. Poco importano le ingiurie. Poco importa la miseria. Tutto questo come condotta d’uomo. Come lavoro. Un metodo; di contraddizione se si vuole. Affidarsi alle astrazioni più forti. Fare tutto ciò che era vietato, e ricostruire con fiducia, senza paura di esagerare: esagerando perfino. Imparare di nuovo, poi, una volta imparato, ricominciare da capo: vincere tutte le timidezze, qualunque sia il ridicolo che ne possa derivare”. La sicurezza dell’asserzione non ha alcuna garanzia: è propria dei visionari che sanno guardare oltre i contorni, le forme e le luci, in cerca di un altro modus vivendi. Brillante.
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