martedì 11 settembre 2018

Ben Rawlence

In quello che Mike Davis chiamava Il pianeta degli slum, l’agglomerato dei campi profughi di Dadaabo (nelle sue due estensioni) e Hagadera, ovvero La città delle spine, avrebbe occupato una posizione speciale. Non è una coincidenza: la conclusione a cui arriva Il pianeta degli slum collima con l’inizio della storia di Guled, uno dei nove protagonisti e testimoni del reportage di Ben Rawlence. Il punto d’incontro è la Somalia del 1993, quando il connubio tra carestia e guerra civile ha dissolto una nazione e inaugurato un esodo senza fine. Le immagini di Black Hawk Down sono tutto ciò che ci resta, come a ricordare che gli interventi occidentali finiscono per essere inutili, se non dannosi, e venticinque anni dopo, la Somalia continua in gran parte a essere un luogo invivibile. Tra restare nel pericolo incombente e lasciare la propria terra per un campo profughi in Kenya la scelta è obbligata perché “quando c’è la guerra, non si prendono decisioni razionali e ponderate: si compie un passo alla volta, come quando si scala una parete di roccia, sperando di non cadere nell’abisso”. È così che è sorta La città delle spine: più di cinquecentomila persone alloggiate in ripari di fortuna, sotto una tenda, se non sulla nuda terra, esposti alle intemperie, alle peggiori privazioni, alle minacce e, più di tutto, all’indifferenza perché, come scrive Ben Rawlence, “la mitologia e la religione affondano le loro radici nella cultura dell’esilio, ma ciò nonostante non siamo in grado di riconoscere che i profughi sono in primo luogo esseri umani”.  Le storie di Guled, Gab alias Ahmed, Apshira, Billai, Christine, Fish, Idris, Isha, Kheyro, Mahat, Maryam, Muna, Nisho, del professor Indha Dae e Tawane raccolte da Ben Rawlence raccontano la vita di un coacervo di disperazione, fatica, abulia. In transito tra una fuga e l’altra,  si ingegnano ogni giorno per risolvere piccole e grandi incombenze quotidiane, ma La città delle spine è ben lontana da un’idea, anche minima, di ospitalità. Ogni piccola necessità diventa fonte di umiliazione e nei campi bisogna pagare due volte tutto, che poi è quel poco che serve: acqua, latte, grano, riso. Ben Rawlence non nasconde nulla di quello che avviene tra le pieghe degli aiuti umanitari e degli uomini del governo del Kenya. La corruzione endemica che filtra da ogni istituzione fino ai campi è una forma di sfruttamento assiduo a cui i rifugiati non possono sottrarsi perché “sono generalmente persone docili e prive di alcun potere reale, che obbediscono agli ordini, temono l’autorità e implorano per ottenere ciò che spetta loro di diritto”. La constatazione di Ben Rawlence ricorda che lo status dei rifugiati resta indefinito in un esilio perenne e, per quanto possa sembrare paradossale, pur grondanti miseria, rappresentano un’opportunità. Essendo un crocevia delle attenzioni e degli aiuti internazionali, La città delle spine diventa un oggetto del contendere politico e i profughi si ritrovano a essere, loro malgrado, parte delle querelle elettorali del Kenya, senza che si riesca a intravedere una concreta possibilità di garantire un minimo insindacabile di vivibilità. Ben Lawrence ricorda, per esempio, che una delle organizzazioni internazionali aveva promosso la realizzazioni di abitazioni più sicure, sfruttando un innovativo sistema di costruzione, semplice ed economico. Un progetto osteggiato dal governo del Kenya fino a farlo fallire perché le case così ottenute erano di gran lunga migliori di quelle di gran parte della popolazione locale. Basta questo a comprendere che La città delle spine è l’imitazione in negativo di una metropoli che contiene tutte le sofferenze possibili, da un mercato del lavoro assurdo e violento alle irrisolte questioni tribali fino alle infiltrazioni di terroristi e delinquenti comuni. L’alternativa è ancora fuggire, solo che non c’è alcun posto dove andare, soltanto liste d’attesa e code strazianti per qualsiasi cosa. Come se il tempo fosse stato inghiottito dal deserto: tra i fantasmi del passato e un futuro senza speranza, resta l’eterno presente di una città invisibile che Ben Rawlence, dando voce ai suoi poveri abitanti,  ha saputo rivelare in un libro necessario e importante.

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