Perseguitato dall’idea di essere un sosia di Ernest Hemingway, Enrique Vila-Matas ricostruisce i suoi due anni di formazione in una Parigi effervescente e labirintica, prigioniero dell’idea di diventare uno scrittore e ossessionato dalla vitalità della città. Forse la citazione di Samuel Beckett in fondo al libro ha più di un senso, ma colpisce nel segno: “Non s’inventa nulla, si crede di inventare, di evadere, non si fa che balbettare la propria lezione, frammenti di un senso imparato e dimenticato, la vita senza lacrime, così come la si piange. E poi al diavolo”. È l’ispirazione principale, anche se si trova al capolinea, che porta Enrique Vila-Matas a ricostruire i tempi intensi e brucianti vissuti a Parigi sulle orme della Lost e della Beat Generation, ospite di Marguerite Duras. Un’impresa difficoltosa perché “il passato è sempre un insieme di ricordi, di ricordi molto precari, perché non sono mai veri” e la sua ossessione per Ernest Hemingway lo porta spesso a sovrapporre epoche e tempi molto diversi. È quella “sensazione di essere in due tempi e in due posti” che nutre un po’ tutte le pagine di Parigi non finisce mai perché Enrique Vila-Matas si dibatte tra l’estenuante tentativo di dare forma alle sue velleità (il suo lavorio è tutto concentrato su un romanzo piuttosto criptico, L’assassina letterata), la vita rutilante di una città che non dorme mai e sprizza arte da ogni angolo e le pressioni della famiglia che dalla natia Spagna non smette nemmeno un secondo di tormentarlo per riportarlo con i piedi per terra. Di solito è così per tutti e Enrique Vila-Matas, tanto a Parigi nei suoi giovani anni ribelli, quanto oggi, si aggrappa al suo strambo processo di identificazione con Ernest Hemingway non tanto per emularlo o imitarlo, quanto per prendersi la libertà assoluta di scegliersi una faccia, un’identità e una personalità, che lui stesso descrive così: “D’altra parte credo di avere il diritto di potermi vedere in modo diverso da come mi vedono gli altri, vedermi come ho voglia di vedermi e non avere l’obbligo di essere la persona che gli altri hanno deciso che io sia. Siamo come gli altri ci vedono, d’accordo. Ma io mi rifiuto di accettare una simile ingiustizia. Sono anni che cerco di essere più misterioso, imprevedibile e riservato possibile. Sono anni che cerco di essere un enigma per tutti”. In un infinito gioco di specchi e di riflessi confluiscono Rainer Maria Rilke e Henry Miller, Borges e Unamuno, Peter Handke e Van Morrison, Sartre e Platone, Flaubert e Duchamp, Scott e Zelda, tutti radunati in un pirotecnico scintillio di suggestioni letterarie. Pur aiutato dall’anima di una “festa mobile” che in un modo o nell'altro è stato il cardine per le maggiori espressioni artistiche degli ultimi due secoli, Enrique Vila-Matas magari non è riuscito nell’intento di trasformarsi in un mistero e poi in un mito, ma almeno è riuscito a raccontare la quotidianità rutilante di chi coltiva la vita con quel fertilizzante indispensabile che si chiama ironia, arrivando alla sacrosanta conclusione che “non hai altra scelta che cercare di essere quanto più ostinato possibile, mantenere la fede nell’immaginazione più a lungo degli altri”. In effetti, a Parigi, hanno sempre saputo come si fa.
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