Il pretesto è una canzone di Van Morrison che Peter Handke elegge a “suo” cantante a cui rubare “la linea della bellezza e della grazia”. Coney Island (dall’album Avalon Sunset) è un frammento di due minuti che celebra le proprietà bucoliche di una passeggiata open air di un’allegra coppia. Niente di importante, si capisce, ma per Peter Handke è il passo oltre la soglia che lo conduce al Saggio sulla giornata riuscita: “L’ascolto attento di un tono mi dà la tonalità per l’intero viaggio della giornata. Il tono non ha bisogno d’una pienezza di suono, può essere uno qualunque, perfino qualcosa che è semplicemente un rumore; l’essenziale è che io riesca a farmi tutt’orecchio per quel tono”. Comincia così un monologo che in realtà è un dialogo con se stesso (“Chi parla a chi qui? Io parlo a me”) attraverso una vocazione innata alla dissertazione. L’ipotesi della giornata perfetta, “incomparabile” e/o “unica” si presta a più livelli di interpretazione, ma intanto Peter Handke si premura di avvisare il lettore che “l’idea in effetti è un’idea, perché non me la sono fatta leggendo né l’ho escogitata: mi è venuta in un momento di grande difficoltà, con lo slancio che per me è sempre stato degno di fede, lo slancio della fantasia. La fantasia è la mia fede”. La precisazione è utile, visto che il saggio è aleatorio, né più né meno di altre occasioni: quello che preme a Peter Handke non è la dimostrazione sull’esistenza (piuttosto che no) di una giornata perfetta, ma il riversare una serie di quesiti che attecchiscono nel suo eloquio come erbe infestanti (che sopravvivono ben più a lungo di un’idea). La capacità estrema di Peter Handke è quella di sottrarsi a ogni responsabilità per restare ancora soltanto al fluidificare (contagioso) della suo stile finché l’idea della giornata riuscita non si evolve “da un’idea di vita in un’idea di scrittura”. L’intento non è dichiarato, la metamorfosi appare come un processo naturale, per quanto Peter Handke sia esplicito fin dai primi passi: “Io, della giornata riuscita, non ho alcuna visione particolare, nemmeno una. C’è soltanto l’idea, e questo mi fa quasi disperare di poter dare all’immagine un contorno riconoscibile, di poter far trasparire il modello, di poter seguire la traccia luminosa originaria: di riuscire a raccontare della mia giornata, come desideravo tanto all’inizio, in modo puro e semplice”. A quel punto riprende l’invocazione a Van Morrison: “Abbozzami una prima immagine, descrivimi delle immagini! Raccontala, la giornata riuscita. Fai sentire la danza della giornata riuscita. Cantami la canzone della giornata riuscita”. L’ambizione di riuscire a coglierla in flagrante rimane, alimentato da moltitudini di paradossi e di domande (“Fede? Sogno? Visione? Più che altro, almeno al principio di questo periodo, una visione: dei disincantati, liberi da qualsiasi concetto di qualsivoglia fede; una specie di ostinato sognare ad occhi aperti”), da fugaci intenzioni filtrate da Coney Island, compresa l’opzione di “camminare fino alla prima stella”, ma, e non c’è nemmeno il bisogno di dirlo, tutto quello che succede, alla fine, è “che non succede proprio niente”. Eppure Peter Handke non si lascia incastrare nemmeno dalla gabbia che si è costruito e attorno struttura al Saggio sulla giornata riuscita sviluppa un discorso coerente, fluente, senza interruzioni se non quelle “intermittenze del cuore” che poi definiscono un’intuizione, una forma, un pensiero, un modello. Per Van Morrison è “l’inarticolato linguaggio del cuore” e nell’arco di una minuscola ballata esprime tutto, ma lui usa strumenti più istintivi, spontanei e immediati di quelli di cui dispone Peter Handke.
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