venerdì 7 settembre 2018

John Berger

Operai in fila nella mensa aziendale, le ciotole in mano, un frutto sui piatti. Silenzio. Una cartolina da Ginevra e gli sguardi al momento di controllare i passaporti. Sigarette accese nello scompartimento di un treno che sferraglia verso la Germania. Un brusio. Test clinici a Istanbul. Catene di montaggio a Lione. Una festa di contadini in Kosovo, un gioco di bambini in Sicilia, turisti ad Atene. Quello che è rimasto a casa, quello che si portano dietro i lavoratori migranti: le valigie, e un’immensa solitudine. Le fotografie di Jean Mohr, i volti scavati e le maschere nelle gallerie, gli uomini controllati, misurati e verificati nelle loro “attitudini”, come se fossero parti da incastrare in un insieme molto rigido, sono eloquenti nel mostrare la sofferenza, la nostalgia, la fatica, le aspettative e le delusioni di un viaggio che nasceva con la speranza di trovare un lavoro. L’emigrazione in cerca di un’altra vita o almeno di una dignità è una metamorfosi il cui destino è restare incompiuta. Come scrive lo definisce John Berger, Il settimo uomo è “una specie di album di famiglia di coloro che sono stati costretti, o sono costretti oggi, a lasciare le loro famiglie nella speranza di portare a casa un salario che permetterà a quelle famiglie di sopravvivere”. Le immagini definiscono “un’assenza”. Vengono da aree rurali del Mediterraneo: la Calabria, i Balcani, la Turchia e il corredo iconografico che distingue Il settimo uomo ha un impatto fortissimo nel rendere l’atmosfera: i migranti sempre in transito, in stazione, sulla strada, nelle baracche ai margini della città, come se il loro viaggio fosse infinito, in una condizione impalpabile, quasi onirica. L’avvertenza di John Berger non lascia spazio a fraintendimenti: “In un sogno il sognatore è dotato di volontà, agisce, reagisce, parla e tuttavia sottostà allo svolgersi di una storia su cui ha ben poca influenza. Il sogno gli capita”. Con gli occhi aperti, si vedono i frammenti di un’identità sparsi per tutto il continente, dove comunque se “il soggetto è europeo, il suo significato globale”. Su questo John Berger e Jean Mohr sono chiarissimi, nonostante il carattere movimentato e intuitivo con cui si sviluppa Il settimo uomo, essendo coscienti che “per cogliere l’esperienza di un altro, non basta smantellare e rimontare il mondo con lui al suo centro. Bisogna esaminare la sua situazione per venire a conoscenza di quella parte della sua esperienza che deriva dal momento storico”. La collocazione, fotografia dopo fotografia, e una didascalia dopo l’altra, prende forma in modo eloquente, e per molti versi definitivo quando John Berger scrive con convinzione che “il migrante eredita la povertà. Ma è una formulazione troppo sommaria per rivelare il dramma della sua situazione. Le voci della sua eredità vanno elencate”. Nel libro sono spiegate una per una nel dettaglio ed è per questo che Il settimo uomo, pur risalendo al 1975, resta di un’attualità straordinaria, come se John Berger e Jean Mohr avessero visto attraverso una dimensione ben al di là del tempo e delle geografia.

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