martedì 19 novembre 2024

Sylvain Tesson

Dopo una rovinosa caduta, Sylvain Tesson si avvia a un pellegrinaggio per mantenere fede a una promessa, che diventa una scelta: i Sentieri neri si trasformano in vie di fuga. Alla partenza si tratta di una questione personale, come confida lo scrittore francese: “Riponevo nel movimento la mia speranza di salvezza”. Nell’inoltrarsi attraverso la Francia, dalla Provenza alla Normandia, scopre via via che “esisteva ancora tutta una geografia minore: bastava saper leggere le carte, non evitare le deviazioni e sapersi aprire un passaggio”. Sui Sentieri neri, Sylvain Tesson non si perde in meditazioni bucoliche, ma affronta i conflitti che attraversano la Francia passando da piste ormai dimenticate. Ne viene fuori un ritratto credibile, delineato da una scrittura ricca e agevole nello stesso tempo. Un ritratto di una nazione attraverso mappe 1:25.000, non sempre aggiornate, lo porta ad appuntarsi gli effetti degli sviluppi e dell’industrializzazione l’industrializzazione dell’agricoltura, la scomparsa dei villaggi e l’apparizione delle infrastrutture stradali e ferroviarie e il proliferare di anonimi paesaggi suburbani, fino a considerare che ormai “il pianeta serviva da palcoscenico alla circolazione degli uomini e delle merci”. È lì, da qualche parte nel Massiccio Centrale che Sylvain Tesson matura la convinzione che è meglio perdersi sui Sentieri neri o “insomma tenersi in disparte, o meglio sparire”. Una volontà perseguita non senza sforzi, perché il cammino è faticoso e non tutte le strade sono aperte, ma con la certezza di coltivare “un piacere di bassa intensità”. La scrittura quotidiana diventa lo strumento per riportare frammenti di memoria, dettagli di un rinnovato rapporto con la natura, gli animali e le piante nonché il senso della solitudine e dell’incontro. Se per gran parte del suo viaggio, Sylvain Tesson è solo con le sue ossa rotte, per un breve tratto viene affiancato da un altro viandante, Cédric Gras, abituato a trasferte ben più ardite nelle praterie siberiane. Oltre ai passaggi nei boschi e ai frugali pasti, i due condividono la passione per la cultura russa e le motivazioni che li spingono, dopo passo, in una direzione ben precisa. Se sulla mappa i Sentieri neri sono linee imprecise, nello sviluppo del cammino diventano un’opportunità che Sylvain Tesson rivendica con convinzione:   “Procedevamo leggeri senza pensare ad altro che a trovare la strada, intenti a godere di tutto ciò che si offriva allo sguardo: una pianta di nocciolo, il volo di uno svasso, un granaio di pietre a secco. Ci accontentavamo di quelle cose. Ci sottraevamo al dispositivo”. Arrivato nella penisola del Cotentin e davanti all’oceano diventa chiaro che i Sentieri neri hanno garantito “fughe, ripiegamenti, passi di lato, lunghe assenze punteggiate di silenzi e nutrite di visioni. Una strategia della ritrattazione”. Sfilando davanti a Mont Saint-Michel e inoltrandosi in un tragitto sulla spiaggia, effimero perché sottoposto agli umori delle maree e ancora più labile dei Sentieri neri, Sylvain Tesson firma una sorta di conclusione, a suo modo definitiva: “Il momento era suggestivo: un sentiero si perdeva nel nulla e ci rendeva felici perché non autorizzava a sperare in qualcosa ma si limitava a far scaturire i sogni”. È una bella gimkana, ma vale la pena provarci.

mercoledì 13 novembre 2024

Ryszard Kapuściński

La guerra è in arrivo, una città si dissolve nella paura, l’assedio concede soltanto una surreale tregua nel weekend, quando i rovesci del fronte si fermano. Nel 1975, Ryszard Kapuściński è a Luanda, capitale dell’Angola, testimone degli ultimi giorni del dominio portoghese e dell’inizio di decenni di guerra civile e non, comprensivi degli interventi esterni (dal Sudafrica a Cuba) e degli interessi occidentali. Confinato nel suo albergo, spiega che “accaddero molte cose prima che la città venisse definitivamente chiusa e condannata a morte”. Fiorisce un mercato di casse di legno per spedire suppellettili e vettovaglie, gli sforzi per trovare l’acqua, il cibo e l’alcol si moltiplicano ogni giorno, usare una linea telefonica è un’impresa anche perché, come dice Ryszard Kapuściński “ci troviamo in un mondo immobile, che trattiene il fiato”. Già allora è un inviato che vive la tensione della guerra senza l’adrenalina e le mistificazioni che adornano le gesta belliche. Il suo è un racconto colmo di umanità per chi deve affrontare e sopportare le privazioni, le crudeltà, le fatiche, i silenzi, dato che “ognuno se la sbrigava per conto suo, facendo affidamento solo sulle proprie forze”. Descrive quei momenti febbrili e pericolosi con rara intensità, osservando molto da vicino, lasciando sovrapporre le voci, indistinte nel suo reportage, rischiando ogni giorno, ma restando sempre lucido e attento agli sviluppi geopolitici. Riassume la sua personale condizione così: “La mia vita scorreva da un avvenimento all’altro, tesa in modo imprecisato verso una meta ignota. Sapevo solo che volevo restare lì fino alla fine, indipendentemente da quando fosse arrivata da quale sarebbe stata. Tutta quella situazione era un enigma che mi attraeva e affascinava”. Mantenendo fede al suo mandato, Kapuściński vuole affrontare la prima linea, ma i combattimenti sono sparpagliati attorno alle sorgenti d’acqua e frazionati in dozzine di entità, tribali e internazionali, al punto che “ogni reparto è un fronte potenziale. Ogni volta che un nostro reparto si scontra con un reparto nemico, i due fronti potenziali si trasformano in fronti reali e scoppia la battaglia. In questo momento noi siamo un potenziale fronte di tre uomini, diretto al nord. Se cadiamo in un’imboscata, diventiamo un fronte reale. È una guerra di imboscate. Su ogni strada, in ogni posto può esserci un fronte. Si può fare il giro del paese e tornare indietro sani e salvi, come si può morire al primo metro di strada. Non ci sono princìpi né metodi, tutto dipende dalla fortuna e dal caso. Questa guerra è un vero casino, non si capisce un accidente”. I cadaveri lungo la strada, i posti di blocco regolati da procedure variabili con il clima e l’umore, il sacrificio della sua scorta, Carlotta, rendono Kapuściński partecipe della dissoluzione di una nazione, che scompare in un’orgia di violenza: “Ognuno voleva indicare con il dito il punto in cui, a suo avviso, si trovava il fronte, spiegare in mano di chi fosse una data città, a chi appartenesse questa o quella strada. Non c’erano due persone che vedessero la situazione allo stesso modo. Dopo alcuni giorni, le centinaia di dita strusciate sulla mappa ne aveva cancellato città, fiumi e strade: il paese sembrava il frammento di un grigio, spoglio pianeta, privo di uomini e di natura”. Ed è così che anche per un indomito veterano come lui viene l’ora di partire, lasciando Luanda e l’Angola al loro destino e ammettendo che “il mondo contempla il grande spettacolo di lotta e di morte che, oltretutto, non riesce assolutamente a immaginare, poiché il volto della guerra non è comunicabile. Né con la penna, né a voce, né con la macchina da presa. La guerra è una realtà solo per chi sta conficcato tra le sue sporche, disgustose e sanguinolente interiora”. Amaro, toccante, firmato con la classe di un reporter insuperabile.

martedì 29 ottobre 2024

Wang Xiaobo

C’è stato un tempo, in Cina, in cui “le regole fondamentali erano: mai rifiutarsi di eseguire gli ordini e mai lamentarsi, nemmeno delle cose più insopportabili”. Non che sia cambiato un granché, ma la rocambolesca biografia di Wang Er attraversa la seconda metà del ventesimo secolo con la traiettoria di una bizzarra meteora. Wang Xiaobo riesce a decifrarla con grande ironia e anche con un bel coraggio nel sottolineare le astruse norme e l’atmosfera generale durante la Grande Rivoluzione Culturale quando “dappertutto c’erano altoparlanti che blateravano senza sosta, giorno e notte” e c’era una confusione sulle priorità perché “subordinare i principi secondari a quelli fondamentali significava non avere principi, subordinare i problemi piccoli a quelli più grandi equivaleva a confondere i termini della questione”. Quelli che vengono rievocati durante L’età dell’oro (nella traduzione di Alessandra Pezza e con la cura di Patrizia Liberati), “erano anche tempi in cui c’era un mucchio di carta straccia, e i ragazzini giravano a raccoglierla con dei carretti che si erano costruiti da soli, slittando per le strade che era una meraviglia. C’erano un sacco di pazzi lasciati a briglia sciolta che diventavano oggetto di ammirazione”, e forse in cima all’elenco va annoverato proprio Wang Er. È un outsider, e non tanto per questioni politiche, quanto per motivi caratteriali: non riesce a trovare una collocazione perché insegue il sesso come modulo di espressione, non asseconda i grandi passi in avanti né la dialettica del partito, le imposizioni della burocrazia o “il sostegno delle masse” convinto che “la vita è breve, e anch’io, come tutti, me la faccio andare bene così com’è”. Wang Er è un personaggio epocale, che sopporta punizioni e privazioni senza battere ciglio, ha un modus vivendi articolato attorno alle sue erezioni e un’indolenza non proprio patriottica, che ammette con grande candore quando dice che “i fili d’erba che crescono in primavera non hanno uno scopo. Lo stallone in calore che galoppa quando si alza il vento non ha uno scopo. L’erba cresce, lo stallone va in foia, ma non certo per noi. Questa è l’esistenza di per sé”. Le peripezie sentimentali ed erotiche coinvolgono una bella percentuale dell’altra metà del cielo: con Chen Qinyang, Campanellina ed Erniuz, la moglie che è un’atleta judoka, si rende protagonista di “una serie di spettacoli per cui due occhi non erano abbastanza” e che Wang Xiaobo mette in rilievo senza risparmiarsi, strappando spesso un sorriso, ma anche con un particolare spunto filosofico quando lo descrive così: “Se Cartesio fosse stato Wang Er, non avrebbe cogitato. Se Don Chisciotte fosse stato Wang Er, non avrebbe combattuto contro i mulini a vento. Se anche fosse arrivato a Rodi, come l’atleta spaccone di Esopo, Wang Er non avrebbe fatto nessun salto. Perché Wang Er non esiste. E non soltanto Wang Er, la maggior parte delle persone non esiste, e qui sta il nocciolo del problema”. Tra distruzione e costruzione, riforme e censure, “scorrono gli anni come acqua, e in un batter d’occhio sono giunto all’età delle certezze” ammette Wang Er, mai piegato o sconfitto, un individuo singolare ed eccentrico, che nasconde tutta una poetica in un paese in preda alla follia della razionalità, o qualcosa del genere. Ed è così poi che, se “i fatti dimostrano che la società, come una fornace, è in grado di temprare chiunque”, con le storie del signor He e di Akimoto Kandu, del signor Li e di Filetto, il tono agrodolce di Wang Xiaobo ci ricorda che “come una luna in cielo illumina il mondo senza distinzioni, così i mesi e gli anni scorrono per tutti, ma ognuno se li vive a modo suo” e Wang Er è ancora lì, pallido e assalito dai ricordi, ma ancora in piedi. Tanto basta, poi è vero che “nella vita si viaggia da soli, e per passare il tempo serve un buon libro” e L’età dell’oro è più che un ottimo candidato, perché di compagnia da scoprire e condividere, a partire dall’ineffabile Wang Er, ne offre un bel po’.

giovedì 24 ottobre 2024

David Thomson

Generation Kill è una serie della HBO che segue le gesta dei marines nella guerra in Iraq ed è molto efficace nella ricerca linguistica e nel modello delle immagini, tanto da rappresentare quasi una versione aumentata della realtà. Sarebbe stato interessante conoscere il parere di David Thomson a proposito, perché La fatale alleanza è un libro davvero scrupoloso che si addentra con grande coraggio e generosità nell’indagare “un secolo di guerre al cinema”. Un argomento difficile da seguire, spinoso, complesso e con cui confrontarsi perché “c’è qualcosa di naturale nella guerra. O che va oltre la ragione”, ed è qualcosa di cui ci sfugge ancora il senso, nonostante occupi il nostro immaginario. Non è soltanto il cinema, anche se dipendiamo da “un golpe cinematografico del combattimento” come lo chiama David Thomson, al punto che ormai “non possiamo fidarci al cento per cento di ciò che vediamo, perché la raffinatezza del cinema ha umiliato e ingannato le nostre tragedie”. Per arrivare a una conclusione così, è necessaria lunga dissertazione sugli effetti invasivi e pervasivi delle immagini belliche tenendo conto di un paio parametri insindacabili, ovvero considerando “il cinema nel suo complesso come luogo culturale, come pratica, linguaggio e modo di pensare” e, poi, che “la bellezza è una cosa complicata in un film”. Per cui “una fila di soldati eccitava Ėjzenštejn nello stesso modo in cui una giovane donna insolente eccitava Howard Hawks” e le reazioni ai primi venti minuti di Salvate il soldato Ryan o degli ultimi cinque di Black Hawk Down, per dire degli esempi più attendibili ed estremi, dipendono dal fatto che “le immagini reali continuano a essere divulgate, ma la nostra cultura è annoiata dalla loro facilità di fabbricazione”. Questo è un po’ il crinale su cui La fatale alleanza, e il titolo dice già tutto, rimane in equilibrio e, come spiega molto bene David Thomson, “è qui che risiede il grande fascino dei film e la loro capacità di rendere la guerra vivida ma lontana, eccitante ma libera da danni e morte”. È un lavoro enorme, da grande conoscitore delle strutture cinematografiche, ma anche espressione di una notevole sensibilità per farci capire che la guerra ci viene propinata come se fosse inevitabile, ed “è un vento che non soffia mai in una sola direzione” e quando diventa spettacolo implica diventare “complici, spettatori che giocano sporco guardando l’immediatezza da una distanza di sicurezza”. Davanti allo schermo succede qualcosa di più e La fatale alleanza è eccellente nel dimostrare, pellicola dopo pellicola, attore per attore, e assecondando la visione di ogni regista chiamato in causa, che “immaginare una guerra, o dieci minuti di battaglia, significa fare un enorme, immotivato salto di finzione. Ma adoriamo farlo”. Con le proprietà di una scrittura chiara, limpida, essenziale che riesce a dipanare concetti complessi con un tono spigliato, e a tratti condito persino da uno spiccato  sense of humour (e non era facile viste le materie), La fatale alleanza ha una sua vastità: percorre in sostanza tutta la storia del cinema e arriva ai nostri giorni, però è estremamente scorrevole perché non c’è nulla di intellettualoide o di specializzato anche rispetto alla forma d’arte cinematografica. È una dissertazione molto appassionata nel suo svolgersi e anche precisa con parecchi temi che il lettore potrà approfondire a parte e tra questi tanti libri, romanzi e saggi e poesie, perché è necessario un background di spessore per comprendere come “ciò che rende la guerra un’esperienza culturale così impegnativa è l’instabilità nella quale cerchiamo di rimanere noi stessi”. Questi sono i veri danni collaterali che La fatale alleanza mette in evidenza, chiamandoci in causa: “Dover recitare la parte di semplici spettatori con l’ordine di restare fermi o calmi è umiliante, oltre a essere l’espressione di un ulteriore impoverimento della nostra possibilità di essere persone reali”. Un corto circuito che in un episodio di Generation Kill si manifesta apertamente, quando un gruppo di marines riprende il bombardamento di un villaggio inerme esclamando, in coro: “È dannatamente reale”. Bellissimo e importante, La fatale alleanza riesce a mettere a fuoco quel tragico abbaglio, che ormai viviamo ogni giorno.

giovedì 10 ottobre 2024

William Dalrymple

L’etimologia del termine “loot” inteso bottino, risale ai tempi della Compagnia delle Indie Orientali (CIO) e non potrebbe essere diversamente. Per quasi due secoli una società privata ha saccheggiato le risorse del subcontinente indiano, spianando la strada all’imperialismo inglese, che poi avrebbe dominato fino al 1947. La storia è intricatissima: come un processo virulento la CIO si è intrufolata nelle ingarbugliate dinamiche della regione già a partire dal diciassettesimo secolo, prima come partner commerciale e poi come avamposto militare. Questa doppia e ambigua natura, di fatto una replica dell’apparato statale ma senza i contrappesi istituzionali, ha sconvolto a più riprese l’equilibrio fragile e cosmopolita dell’India. Come scrive William Dalrymple nell’introduzione: “Una società di capitali multinazionale era in procinto di trasformarsi in un’aggressiva potenza coloniale”. Le ataviche lotte per la conquista dei territori, dei tesori e soprattutto del gettito fiscale sono state l’humus perfetto per le intrusioni economiche e militari della CIO. William Dalrymple elenca campagne, battaglie, intrighi e congiure ,  rovesci, tradimenti e rivolte, massacri e carestie offrendo, grazie a un densissimo lavoro di ricerca, una ricostruzione fedele dei conflitti, una saga interminabile e sanguinosa che ha visto la CIO protagonista per la spregiudicatezza, il cinismo, l’avidità e la corruzione con cui si muoveva nell’intricato scacchiere indiano. Il racconto è avvincente, in tutta la gamma delle sfumature, dalle gesta bellica ai risvolti finanziari, William Dalrymple usa un tono quasi romanzesco per dipanare una realtà spinosa, a dir poco, ma alla fine è chiaro e impietoso: quando la CIO, “una società mercantile acquisì per la prima volta un potere politico reale e tangibile”, si dimostrerà una struttura fuori controllo che fomentava guerre, finanziava colpi di stato, tramava in continuazione senza alcun confine giuridico o morale, con l’obiettivo principale, se non proprio unico, di predare ogni risorsa per la società, e per gli azionisti. Adam Smith (non uno qualsiasi), la definirà “una strana assurdità, una compagnia-Stato” e il termine “anarchia” va inteso come caos (politico, militare, sociale, economico) da cui la CIO ha progressivamente tratto il suo enorme potere, con “spese militari fuori controllo e caos finanziario”. È necessario ricordare, come fa con estrema chiarezza William Dalrymple, che “l’inarrestabile espansione dell’impero indiano della Compagnia non sarebbe stata possibile senza il sostegno politico ed economico di questi gruppi di potere regionali e delle comunità locali. L’edificio della Compagnia delle Indie Orientali si reggeva sul delicato equilibro che essa seppe mantenere con mercanti e mercenari, nawab e Raja suoi alleati e, soprattutto, con i suoi docili banchieri”. Le condizioni geopolitiche e belliche si ripetono da un secolo all’altro finché all’alba del diciannovesimo secolo la CIO, cospirando in continuazione e alimentando eserciti di proporzioni bibliche, è riuscita, in un modo o nell’altro, a prendere il controllo dell’intera India. A quel punto però le disinvolte pratiche (diciamo così, giusto un eufemismo) di “colonialismo aziendale” avevano allarmato le istituzioni inglesi e la CIO venne nazionalizzata, rivelandosi alla fine soltanto la testa di ponte, tanto brutale quanto sacrificabile, dell’imperialismo e del colonialismo di sua maestà, ovvero di “una nuova e aggressiva concezione dell’Impero britannico in India come un’iniziativa non privata ma di Stato”. A William Dalrymple non sfugge un parallelo con le attuali multinazionali, avendo compreso che “nell’intima danza tra il potere statale e quello aziendale quest’ultimo, benché possa essere regolamentato, vi si opporrà con tutte le risorse di cui dispone” ed è così che il loro strapotere è in grado di influenzare stati e governi in ogni angolo del globo: una natura avida e rapace che si intravede già, secoli fa, nello sviluppo della CIO e del destino, suo e dei suoi uomini. Un libro imponente e importante.

mercoledì 9 ottobre 2024

Anthony Burgess

Hemingway nel discorso di accettazione del premio Nobel disse che “se è uno scrittore abbastanza in gamba, deve affrontare l’eternità, o la mancanza di essa, ogni giorno”. La biografia di Anthony Burgess sembra partire proprio da lì, spiegando che sebbene “i difetti dell’uomo alla fine abbiano mutilato l’opera, al suo meglio Heminway è una forza generatrice di ulteriori sviluppi pari a quella di Joyce, Faulkner o Scott Fitzgerald. E anche nel peggio ci ricorda che, per impegnarsi nella letteratura, bisogna prima impegnarsi nella vita”. Non si può dire che Hemingway non ce l’abbia messa tutta: l’aspetto fisico, fin dall’incipit, l’infanzia tratteggiata rispetto ai nodi famigliari, il suggerimento di Sherwood Anderson di andare a Parigi “dove, come dice Henry James, perfino l’aria è soffusa di stile”, gli incroci con James Joyce, Ford Madox Ford e Gertrude Stein raccontano una formazione che è stata tutta un’esperienza. Seguendolo, Burgess alterna i tratti storici a quelli critici, che riguardano i romanzi, i racconti e più in generale lo stile di Hemingway: la biografia è essenziale e in parte sbrigativa, ma funziona a livello introduttivo e contiene un po’ tutto: il carattere volubile, gli eccessi (nel cibo e dell’alcol), i viaggi e le peripezie, ma anche una rilettura approfondita del suo lavoro, come capita a Morte nel pomeriggio, “un ponderoso studio sulla metafisica della corrida”. La tauromachia vista da Hemingway è quasi un’anticipazione visionaria della guerra civile spagnola e Anthony Burgess si avvicina alla sua scrittura con genuina passione, ma non risparmia critiche attente e significative: “Hemingway non fu mai molto bravo come inviato di guerra. Il talento di romanziere lo spingeva a inventare, a organizzare la realtà in schemi estetici, a coltivare l’impressionismo che Ford Madox Ford incoraggiava a portare dalla letteratura nella vita reale”. Mentre si susseguono matrimoni e divorzi, avventure più o meno vere nel corso di due guerre mondiali, la pesca, la caccia e la boxe Burgess legge con scrupolo e senza esitazioni Di là dal fiume e tra gli alberi, analizza il successo raggiunto con Il vecchio e il mare, che “affronta il tema del coraggio mantenuto dinanzi al fallimento” e compie anche una cernita tra i fatti e le invenzioni che permette una conoscenza più che sufficiente tenendo anche conto che “la letteratura non è fondamentalmente invenzione: significa disporre entro modelli estetici le données di un’esperienza di vasta portata”. Senza dubbio, Hemingway rimane un profilo complesso, articolato e spesso contraddittorio: Anthony Burgess ha il pregio di trovare un ordine o, almeno, una coerenza nel corso di una vita caotica. Non è un’analisi risolutiva, ma almeno pone le basi per un ritratto dignitoso ed efficace, dove Anthony Burgess riassume così il senso di un’intera figura: “Hemingway non si accontentò di eccellere nel ruolo di cacciatore, pescatore, pugile e capo guerrigliero. Dovette trasformarsi in un mito omerico, il che significava posare e mentire, trattare la vita come un romanzo”. Su questo, il suo lavoro biografico incide nell’insieme con una sua precisione, anche nel rileggere i principali passi stilistici di Hemingway. Il pregio principale resta quella separazione piuttosto precisa tra la leggenda che si è costruito da sé, e l’effettivo valore dello scrittore che ha saputo trovare un nuovo modo di esprimersi: “Il fine artistico di Hemingway era originale come quello di qualunque altro intellettuale di avanguardia che dissertava nei caffè sui boulevard. Scrivere senza fronzoli, senza imporre il proprio modo di pensare, far sì che parola e struttura esprimano pensiero, sentimento e anche fisicità, sembra facile oggi, soprattutto perché Hemingway ci ha mostrato come farlo, ma non era facile quando letteratura significava ancora stile calligrafico in senso vittoriano, con abbellimenti neogotici, allusioni pedanti, una struttura intricata di frasi subordinate, la personalità dell’autore frapposta, timidamente o brutalmente, fra il lettore e l’opera scritta”. Molto accurata anche la descrizione del crepuscolo riportato da Anthony Burgess dove ricorda quello che diceva Hemingway, ovvero che “scrivere significa, nel migliore dei casi, una vita solitaria”, e su questo non si discute.

martedì 23 luglio 2024

Edgar Selge

Il cielo sopra Berlino è tumultuoso e il ritratto di una famiglia, quella di Edgar Selge, triste a modo suo, ne è il riflesso spontaneo, mutevole ed elettrico. La condizione iniziale vede protagonista, su tutti, il padre che è il direttore di “un carcere prussiano costruito a regola d’arte” e in precedenza ha gestito, con gli alleati, la prigionia degli ultimi gerarchi nazisti. Autoritario, e violento (anche incestuoso, per non farsi mancare niente), coltiva l’ossessione per la musica da camera costringendo moglie e figli a seguirlo verso una dimensione irraggiungibile. Sì, perché se all’inizio “in un battito di ciglia, un’idea musicale esplode in un vortice di forme. L’energia si moltiplica. Qualcosa si è risvegliato, ha scoperto le proprie possibilità, e ora che è stato disturbato non lo si può placare. È una traccia che divora la vita”, poi ritmo, intonazioni, sincopi, note e accenti devono essere perfetti e ogni esecuzione deve essere comprensiva di “sforzo, duro allenamento, a volte persino umiliazione. La gioia arriva semmai alla fine, come una sorta di ricompensa”. Prima, è molto improbabile che succeda qualcosa e l’assillo per la musica concepita come una forma rigida, è solo una gabbia protettiva, ma pur sempre una gabbia. Edgar soffre il padre, facile ai ceffoni e alle angherie, e coltiva un rifugio immaginario dove si crede Kesserling, riesumando e rielaborando i fantasmi dei bombardamenti e dei campi di concentramento. La memoria è una condanna capitale: l’ombra luttuosa del nazismo, l’ambiguità delle connivenze, i tentativi di ripristinare lo spirito di una nazione definiscono l’esperienza quotidiana non meno delle macerie, dei limiti economici e, più di tutto, dell’incognita del futuro. Questi sono gli argomenti che aleggiano e sono definiti dalle figure adulte, che Edgar osserva con scrupolo, cercando di comprenderli. Non è facile in condizioni cosiddette normali, perché “tendiamo sempre a pensare che i tempi cambino. Ma è vero solo a metà. Le persone restano uguali”, figurarsi a Berlino, dopo la fine della seconda guerra mondiale. È lì che Edgar alias Etja esce dagli schemi e, noncurante delle sberle in arrivo, si dedica al cinema, si innamora e, non corrisposto, combina un disastro, uno dei tanti, fino a scoprire che “la vita è un edificio fragile, adesso lo sappiamo, e possiamo meravigliarci di essercelo dimenticato”. La scrittura è farcita di riferimenti, con I fratelli Karamazov, Shakespeare, Rembrandt, Mozart e Proust in prima fila, ma è  lineare nello stile, per quanto Edgar Selge continui a saltare per linee temporali non coerenti. Il suo sguardo si trasforma nel corso degli anni e, tra un flashback e l’altro, risale l’albero genealogico segnato dai conflitti mondiali, come se l’intera schiera di parenti soffrisse di disturbo da stress post-traumatico. Finalmente ci hai trovati (nella traduzione di Angela Ricci) è una matrioska che Edgar Selge svela un pezzo dopo l’altro. L’amore, il dolore, le incomprensioni, le speranze sono incapsulate e sfuggenti, tanto da rendersi necessaria un’avvertenza esplicita: “Mi piacerebbe che la vita e le sue circostanze vi si imprimessero così tanto, che a partire da quei tratti fosse possibile ripercorrere a ritroso le loro storie. Ma la vita sui volti cresce in un altro modo. È invisibile. Al massimo si può intuire la forza degli eventi passati, ma non di più”. Assecondando il punto di vista di una giovane anima ribelle, Edgar Selge supera i risvolti autobiografici e con Finalmente ci hai trovati dimostra che esiste ancora la possibilità di raccontare “le onde della vita”, ma anche di mettere in discussione tutto: patria, famiglia, istituzioni, tempo e storia. Per essere un esordio, anche un po’ avanti negli anni, non è poco.

sabato 6 luglio 2024

Lillian Roxon

A Lillian Roxon va riconosciuto, ancora, il merito e il coraggio di una prima ricognizione organica della storia del rock’n’roll. La forma dell’enciclopedia resta una struttura limitata e limitante, ma Lillian Roxon non si è lasciata intimidire e l’ha usata per offrire una sua prospettiva, con un punto di vista ben lontano dall’accademia. È così che La Rock Encyclopedia pur restando un lavoro pionieristico, a lungo, è stato un punto di riferimento. I giudizi sono spesso tranchant come nel caso di Sandie Shaw (“È famosissima nella scena rock inglese più perché in giro da tempo che perché abbia mai fatto qualcosa di innovativo, anche se ha uno stile abbastanza gradevole. In America non s’è mai affermata tanto quanto le sue rivali dirette, Dusty Springfield e Petula Clark”), Odetta (“Cantante folk con una voce cosìforte che quando raggiunge le note più acute ti fanno male tutte le otturazioni della bocca”) o Billie Holiday (“Regina del blues negli anni Quaranta, Billie Holiday è morta tragicamente nel 1959 all’età di quarantaquattro anni. Tutti da Frank Sinatra a Janis Joplin, hanno imparato da lei”). I ritratti sono essenziali, quasi d’un fiato, di getto, come se fosse spinta da un’urgenza, dalla necessità di cogliere il momento, di fermare un’istantanea. Come succede nel caso di James Brown, che descrive così: “Ci saranno di certo performer più bravi (ci sono), che cantano meglio, sono più belli, ma James Brown fa lo spettacolo migliore, quello che vale più di ogni altro, ed è il re. Altri aspirano, costantemente, a quel titolo, ma la sua interpretazione non perde un colpo. Una volta, durante una stagione di rivolte, è finito in televisione e tutti si scordati delle rivolte e sono rimasti a casa a guardare il re”. La scrittura al presente perché è in quel momento che stavano succedendo le cose: Lillian Roxon è stata un’eroina del rock’n’roll, una testimone oculare partecipe e convinta capace di cogliere anche aspetti singolari come il lavoro di un batterista, Kenneth Buttrey (“Ha esordito a Nashville, appare in diversi album country, e anche se non è un batterista rock, ha prodotto quello che dovrebbe essere il più raffinato lavoro di batteria del pop moderno”) o di un pianista, Floyd Cramer (“Viene fuori da Nashville, e ha suonato il piano in letteralmente centinaia di dischi country. Se pensi a un piano stile country, è allo stile di Cramer che stai pensando). Curiosa, ma segno di un’attenzione non casuale, la voce dedicata a  John Cage: “Un compositore americano adesso sulla cinquantina che ha influenzato molti dei musicisti rock più evoluti. Il problema è che quando ascolti Cage capisci che il rock tutto sommato non è così irriverente e audace. Una delle sue composizioni è per dodici apparecchi radio, ventiquattro musicisti e un direttore d’orchestra. La partitura dà la proporzione tra musica e silenzio; il resto è affidato al caso”. Meritano una menzione la panoramica dei Beach Boys, la definizione di soul e il ritratto di Aretha Franklin nonché l’idea che i Grateful Dead “più che una band sono stati un’istituzione sociale” o l’interessante punto di vista (ancora valido, del resto) su Randy Newman: “Una cosa interessante della gente che scrive canzoni per la nuova musica è che non si accontentano più di stare nell’ombra ma s’imputano a volere registrare le loro cose, anche se non sono le voci adatte per cantarle. Di sicuro è stato Bob Dylan il primo. Una volta che ti piace la sua di voce sei pronto per tutto. Il losangelino Newman è anche lui uno di quelli che impari ad apprezzare col tempo”. Il citato Dylan “è un libro, a dir poco” e tanto basta, ma oltre ai nomi conosciuti, Lillian Roxon aveva identificato per tempo il ruolo crescente dei produttori e ancora di più quello dei manager, così come l’importanza degli sviluppi tra elettronica e rock’n’roll, una previsione più che azzeccata. A corollario, La ricostruzione della gestazione dell’Encyclopedia è ancora emozionante: il ritratto della “summer in the city” a New York del 1967 e del suo rapporto con il libro, i motivi che l’hanno spinta a scrivere l’Encyclopedia rimangono tutti validi. C’è altro ancora, come la cronaca del concerto dei Creedence Clearwater Revival, ma quello che c’è di bello nelle pagine dell’Encyclopedia, al di là del metro di giudizio e delle opinioni, è lo spirito intraprendente e indipendente che oggi è raro (se non impossibile) da trovare. 

giovedì 16 maggio 2024

Salvador Dalí

La lucidissima follia di Salvador Dalí condensata nelle pillole di Rompere le regole è una scoperta curiosa, e molto preziosa. L’attitudine poliedrica, esuberante e visionaria dell’artista catalano non è mai stata in discussione, compresi il suo approccio senza lacci, schemi o ordini accademici nonché quell’originalissima percezione quando dice che “la bellezza non è che la somma di coscienza delle nostre perversioni”. Una passione che in Rompere le regole si rivela contagiosa verso colleghi altrettanto avventurosi come Picasso (“La bellezza sarà possibile ancora una volta. E lo dovremo ancora, paradossalmente, allo sforzo assolutamente demoniaco di Picasso che ha preteso di raggiungerla”) e Miró (“Joan Miró restituisce al tatto, al punto, al più lieve stiramento, al significato figurativo, ai colori, le loro più pure virtualità magiche elementari”) senza dimenticare i richiami a Giotto, Breton, Rosseau. L’importanza dello sguardo, da dove tutto comincia e finisce, le assonanze tra la natura e la realtà mettono in prima linea la “luce del cinema”, (“È una luce molto spirituale e molto fisica a un tempo. Il cinema capta esseri e oggetti insoliti, più invisibili ed eterei che le apparizioni delle mussoline spiritiche. Ogni immagine cinematografica è la cattura di una spiritualità incontestabile”), la fotografia e la poesia (“Il lirismo delle immagini poetiche non è filosoficamente importante se non quando raggiunge, nel suo funzionamento, la stessa esattezza che hanno nella loro sfera di azione le matematiche. Il poeta deve, prima di chiunque altro, provare ciò che dice”). Anche in questo caso, Dalí sapeva esprimere un’opinione estrema e coraggiosa (“Qualunque marciume può sempre procurare da un momento all’altro, a chi lo desideri, un’immagine poetica capziosa e adeguata al caso. In qualunque caso”) ma dentro la sintesi di Rompere le regole il leitmotiv conduttore è piuttosto la concezione che “il piacere è l’aspirazione più legittima dell’uomo. Nella vita umana il principio di realtà si erge contro il principio di piacere”. Una constatazione lapidaria, introduttiva a collocare dentro una cornice molto chiara una sorta di stringente e irrinunciabile filosofia, sorretta principalmente dalla convinzione che “ogni autentica rivoluzione culturale deve portare alla elaborazione di un nuovo stile”. È così che Rompere le regole confeziona e comprende un altro codice, nuovi modelli e una forma di pensiero irraggiungibile, che Dalí celebra in ogni singolo aforisma, più di tutti quello in cui dice: “L’arte della percezione ci offre la più grande polifonia formale e coloristica che mai si potesse sospettare nell’arte attraverso le vie dell’astrazione; questo solo fatto arricchisce generosamente le risorse alle quali l’artista può attingere”. Ricorda da vicino Marc Augé quando, pur con un attitudine molto più razionale, scriveva che “l’arte è in sé rivoluzionaria, vivificante e democratica, nella misura in cui, come il rito, offre a tutti e a ognuno l’occasione di vivere un inizio”. Con Dalí, anche nella versione compressa in Rompere le regole, si comincia alla grande.

giovedì 11 aprile 2024

Edward Carpenter

Edward Carpenter è stato un osservatore meticoloso, capace di spulciare nella vita della gente comune (il giro dei prezzi al mercato, per esempio) e nelle abitudini e nei gusti (il rapporto con il cibo, molto importante e dettagliato) per trarne spunti volti a una filosofia Per una vita più semplice. Le analisi di Carpenter rispecchiano il pensiero di Thoreau, ma in una chiave più economica e politica. Una forma di pensiero che tocca gli aspetti rurali e cittadini, la loro composizione, i nessi e le differenze. Le sue parole vanno inquadrate nel periodo storico, alla fine del diciannovesimo secolo, ma la costante ricerca sorretta dalla convinzione che “da qualche parte esiste un principio vitale invisibile, il seme all’interno del seme”, è senza dubbio ancora attuale. La lettura di Carpenter è schierata senza esitazioni ed è volta a cercare  “uno standard di vita migliore di quello dominato dalla frenesia del mercato”. Nelle sue riflessioni mette in discussione la proprietà privata (“Affinché esista la vera proprietà deve esserci un soggetto, una padronanza, un esercizio di volontà e potere”), l’alimentazione, il senso del lavoro e del commercio e torna in continuazione a ribadire che “l’istruzione non trasforma l’uomo in una creatura dai desideri insaziabili, preda di qualsiasi sete o capriccio, bensì gli permette di relazionarsi meglio con il mondo circostante. Gli consente di trarre piacere e nutrimento da un’infinità di cose comuni dalle quali, al contrario, chi è schiavo della società non riesce a trarre né gioia né nutrimento”. Carpenter si infervora nel sottolineare l’unicità della persona dato che “l’uomo crea la società con le sue leggi e le sue istituzioni, e allo stesso modo può attuarne una riforma. Potete star certi che da qualche parte, dentro di voi, si annida il segreto di tale capacità”.  Il suo afflato non è soltanto ideologico, anche se la matrice è chiara e precisa, perché si premura di aggiungere che “prima di poter raggiungere un qualsiasi livello di miglioramento collettivo, è necessario che a cambiare siano gli individui”. Questo è un passaggio indispensabile nell’inoltrarsi nella strada Per un vita più semplice, dove la ricca voce di Carpenter sa passare dalla teoria economica e politica, a cui si dedica con passione, all’esperienza diretta, dove “avere a disposizione un orto anche piccolo fa davvero la differenza”. È proprio l’alternarsi delle diverse prospettive a caratterizzare l’ampiezza delle argomentazioni di Carpenter. Se da una parte dice che “chissà, forse esiste un qualche istinto, con un suo scopo difficile da immaginare, che ci spinge a rendere più artificiali le nostre vite ai livelli cui siamo giunti oggi”, dall’altra sembra rispondere con un senso molto più pratico: “Quando sto lavorando per usare ciò che produco, e coltivo patate pensandole in quanto cibo che qualcuno mangerà, e ragiono su come coltivarle meglio per quest’unico scopo, in quel momento ho davanti a me un bene certo che nessuno può portarmi via”. Nel prodigarsi Per una vita più semplice il rapporto con la terra si fa via via più diretto e profondo, finché Carpenter non rende esplicito il suo manifesto cresciuto nelle meditazioni su Walden: “Dichiaro che preferirei prendere pala e piccone e scavare per un anno di fila, ma all’aria aperta e respirando liberamente, piuttosto che vivere in quella giungla di doveri idioti e di rispettabilità affettata che il denaro alimenta in continuazione”. Per coltivare una scelta, “bisogna essere coraggiosi”, perché “per farla breve, ci troviamo in un’epoca di transizione. Nessun mortale, per quanto influente, potrebbe far durare a lungo una società basata sull’usura, un’usura universale e illimitata”. Magari è anche vero, come dice Carpenter, che “i libri parlano soltanto delle ombre e dei fantasmi della realtà”, ma in questo c’è molta verità.

giovedì 1 febbraio 2024

Tom Hofland

In una delle scene iniziali di un bel film di qualche anno fa, I sogni segreti di Walter Mitty, il protagonista dice a Ted, tagliatore di teste incaricato di riorganizzare l’organico, un bel modo di dire per mandare tutti a casa: “Non devi per forza fare lo stronzo”. Proprio così: la situazione è già abbastanza drammatica che non è necessario aggiungerci altro ed è quello che succede con Il cannibale, sorprendente terzo romanzo dell’olandese Tom Hofland (nella traduzione di Laura Pignatti). In un’azienda farmaceutica, Lute (Luut, per gli amici e la ex), il responsabile del reparto vendite e qualità è incaricato dalla direttrice in persona, Klara (attenzione ai nomi, questo era uno di quelli più in vista in Underworld di Don DeLillo) di azzerare il personale dei suoi uffici. È in corso un processo di fusione e acquisizione, e i pretendenti non fanno prigionieri. Lute è angustiato: anche se “è solo l’ambasciatore che deve svolgere l’incarico” e “non è colpa sua; lui non è altro che un intermediario”, conosce tutti e sa che sono tutelati da contratti molto solidi e precisi. Con mille dubbi, deve procedere: la procedura dei licenziamenti e/o delle dimissioni più o meno volontarie deve essere svolta in fretta, con urgenza e con precisione chirurgica, ma sa nemmeno da che parte cominciare. Gli affari sono affari, questo è il refrain, e il sistema c’è, ed è “un sistema che si sostiene e si alimenta da sé. Un sistema che sembra l’unica verità. Quel sistema è costituito da idee che vengono viste come fatti reali. Il sistema deve essere percepito come un fatto; come un solido insieme di regole alle quali tutti si attengono, per via della tradizione, della cosiddetta natura, per qualsiasi motivo”. Per puro caso, incontra prima Reiner e poi Lombard, due specialisti in gestione delle risorse umane. Sono un po’ eccentrici, ma si rivelano preparati, efficienti e, soprattutto, veloci. Lute è sollevato quando Lombard dice: “C’è un mondo personale nel quale siamo carini e gentili, e c’è un mondo professionale nel quale prendiamo le decisioni giuste”. Et voilà: i consulenti procedono senza esitazioni e l’eccesso di zelo, viste le contingenze, va messo in conto, ma è come se Lute avesse evocato forze che non riesce più a controllare, la cui potenza esula dalla razionalità e dall’organizzazione del lavoro. Lombard e Reiner (e il loro cane tutto nero) hanno qualcosa di demoniaco e interpretano a modo loro l’odioso incarico. Qui non è concesso svelare di più, tocca al lettore aprire una porta laterale e avventurarsi in quegli anfratti che Il cannibale annovera nell’asettica architettura aziendale. È lì (sotto) che viene svolto lavoro sporco e l’elemento sovrannaturale  imprime alla storia di Lute, Klara, Mea ed Essel e tutti gli altri un ritmo ipnotico, ma che ripercorre alla perfezione le logiche e i luoghi comuni, spesso inappellabili, che conducono a soluzioni brutali. Il cannibale, con tutte le sue deviazioni, caratterizza benissimo l’atmosfera che si vive in quei momenti: la svolta avviene nella brughiera in una dimensione parallela che mette in risalto l’attitudine visionaria di Tom Hofland, prologo ed epilogo compresi. Cambia registro con disinvoltura, riesce a convincere anche nei passaggi più assurdi e, con una scrittura asciutta e martellante, priva di retorica o moralismo, ma non di una punta di sarcasmo, ci mostra la realtà così com’è. Sì, mischia le carte in tavola, ma con non poco coraggio richiama la peste del 1349 associandola al dramma di France Télécom, quando venne avviato un piano di riorganizzazione in vista della privatizzazione che prevedeva di ridurre il personale di un quinto, circa ventimila persone. Nel 2007 il presidente, amministratore e plenipotenziario disse che sarebbe riuscito nell’obiettivo facendo passare gli esuberi “dalla porta o dalla finestra” e il clima che seguì portò a un’ondata di suicidi (oltre trenta persone). Niente di personale, ça va sans dire, ma guarda caso si chiamava Lombard, non era un romanzo e non era nemmeno un film.

mercoledì 31 gennaio 2024

John Berger

Il ritratto di John Sassall, medico condotto in the middle of nowhere, è, comprese le fotografie di Jean Mohr, uno sguardo ravvicinato al corso della vita in un ambiente bucolico e impenetrabile, racchiuso su se stesso e, in qualche modo, autosufficiente, che John Berger celebra e definisce già nell’incipit di Un uomo fortunato: “I paesaggi possono essere ingannevoli. A volte si direbbe che un paesaggio non sia tanto lo scenario della vita dei suoi abitanti quanto un sipario dietro il quale hanno luogo le loro lotte, le loro conquiste e le loro disgrazie”. A St Briavels nel Gloucestershire, non lontano da Bristol, nella profonda campagna inglese i residenti sono un riflesso del territorio e sono “duri, rassegnati, modesti, stoici”. I luoghi, non meno delle esigenze quotidiane comportano che “il concetto di resistenza è fondamentalmente assai più importante della felicità”. Nella piccola comunità ci si accontenta di poco: un lavoro modesto, una serata al pub, quel minimo per cui “qualunque cultura generale opera come uno specchio che consente all’individuo di riconoscersi, o perlomeno di riconoscere quelle parti di sé che sono socialmente ammissibili”. In questo ristretto habitat, John Sassall svolge il suo compito seguendo “l’ideale del servizio” ed è nella complessità del rapporto con il paziente (e malattia, e morte) che John Berger approfondisce con lunghe ed elaborate digressioni tutto un ordinamento di riflessioni sulla sua personalità e sulla sua missione, compresi i contrasti, le distanze, le differenze con i “boscaioli”. Pur nella condizione provinciale e circoscritta, John Sassall “è riconosciuto come un buon medico perché risponde alle aspettative profonde, ma non formulate, del malato di un senso di fraternità”. Non dispensa soltanto diagnosi e medicinali, punti di sutura o sciroppi: cerca di capire chi è arrivato nel suo ordinatissimo ambulatorio, cosa l’ha portato lì. È “meticoloso”, “gentile”, “comprensivo” e sembra sapere che “la consapevolezza della malattia è parte del prezzo che l’uomo ha pagato per primo e continua a pagare per la sua coscienza di sé”. Il suo afflato ricorda l’uomo di medicina primitivo che, come puntualizza John Berger, “era spesso anche sacerdote, stregone e giudice”. È protagonista di una profonda dicotomia perché se “il suo senso di padronanza è alimentato dall’ideale di perseguire l’universale”, rimane avvolto da una coltre di insoddisfazione e da un senso di inadeguatezza che l’esercizio della professione, per quanto svolto con ammirevole solerzia, non riesce a risolvere. Scriveva nei suoi appunti: “La tragedia fondamentale della situazione umana è non sapere. Non sapere che cosa siamo o perché siamo, con certezza”. Il dilemma, che pare coinvolgere anche le gradazioni di bianco e nero nelle inquadrature di Jean Mohr, si articola in tutta la “storia di un medico di campagna” che John Berger riassume così: “Sassall è nondimeno un uomo che fa ciò che vuole. O, per essere più precisi, un uomo che persegue ciò che desidera perseguire. A volte la sua ricerca comporta tensione e sconforto, ma di per sé è la sua unica fonte di soddisfazione. Come un artista o come chiunque altro creda che il proprio lavoro giustifichi la propria vita, Sassall, secondo i miserabili standard della nostra società, è un uomo fortunato”. La valutazione è ambivalente nelle implicazioni dirette e indirette perché nelle sue condizioni “può sembrare che controlli il tempo, come, in certe occasioni, il navigatore sembra governare il mare. Ma tanto il medico quanto l’uomo di mare sanno che si tratta di un’illusione”. Questo è il groviglio strutturale di Un uomo fortunato e la crisi strisciante, umana molto umana, di John Sassall avrà un risvolto tragico a cui John Berger riserva una brevissima nota, con discrezione, come se non volesse disturbare.

martedì 9 gennaio 2024

Ryszard Kapuściński

Kapuściński in viaggio tra i frammenti della storia sviluppa uno dei suoi libri più personali, un diario che documenta un periodo dal 1995 al 1989, anche se la cronologia non è ordinata secondo uno schema preciso e segue una trama molto particolare. Sono anni ricchi di trasformazioni e Kapuściński ammette che “è difficile scrivere in un mondo di cambiamenti tanto drastici e radicali. Tutto ti scivola da sotto i piedi, mutano i simboli, i segni si spostano, i punti di orientamento non hanno più un luogo fisso. Lo sguardo di chi scrive erra in paesaggi sempre nuovi e sconosciuti mentre la sua voce si perde nel rombo della precipitosa valanga della storia”. Annotazione dopo annotazione, Lapidarium diventa un tentativo di riportare il centro di gravità attorno al mestiere di scrivere che Kapuściński ha esercitato con uno stile inimitabile e una coerenza encomiabile che pervadono fino in fondo ogni passaggio. Il primo, che filtra fin dalle pagine iniziali di Lapidarium, riguarda proprio quella che chiama “la fatica maggiore: non lasciarsi invischiare nella quotidianità, non lasciarsi frastornare da chiacchiere e ciarpame. Soffocare in noi l’inutile curiosità per le cose marginali, sterili, di nessun conto. La curiosità deve essere selettiva, in funzione esclusiva della scrittura”. Gli argomenti e i luoghi sono tra i più disparati e Kapuściński racconta Berlino e Mosca, Dalí e Borges, il Ruanda e l’Iran, libri e film esercitando una cernita essenziale: “Occorre operare una scelta e decidere che cosa sia veramente importante e che cosa no. Bisogna scrivere il meno possibile, scegliere con cura, escludere, tagliare, ridurre, cestinare, conservare un’osservazione su cento. Non esistono regole per questo procedimento: gli unici criteri validi sono l’intuizione e la conoscenza”. Bisogna aggiungerne un terzo che è la necessità di “immedesimazione” che Kapuściński definisce così: “Ho bisogno di illudermi, sia pur fuggevolmente, che il mondo dove mi trovo in questo momento sia l’unico esistente. Mi capita anche di spingermi più in là dell’illusione: certe volte ho creduto che il mondo dove mi trovavo per me fosse ormai l’ultimo, e che da lì sarei andato direttamente in cielo”. La metodologia che si va scoprendo nelle pagine di Lapidarium non lascia spazio a dubbi di sorta. Kapuściński parte dalla lettura, nello specifico dalla poesia (“Ho bisogno della poesia come esercizio linguistico: non posso rinunciarvi. La poesia richiede una profonda concentrazione sulla lingua, il che traduce poi in una buona prosa. La prosa deve possedere una sua musica, e la poesia è ritmo. Ogni volta che comincio a scrivere, devo anzitutto trovare il ritmo giusto, che mi trasporterà come un fiume. Se non riesco a sentire il valore ritmico di una frase, la abbandono. Prima devo trovare il suo ritmo interno la frase, poi il frammento di testo, infine l’intero capitolo”) e dalla prosa (“La prosa è una forma di letteratura talmente trasparente che il lettore scopre subito i punti deboli, quelli dove l’autore si sente insicuro e non riesce a organizzare il materiale. La semplicità crea trasparenza: per questo è tanto difficile scrivere in modo semplice. Proibito usare trucchi, proibito imbrogliare”) per arrivare ad aprire la sua cassetta degli attrezzi e spiegare come prende forma la sua voce. Nella generosa panoplia di Lapidarium, spicca l’intenzione principale che spiega molto, se non tutto, del lavoro di Kapuściński, quando dice: “Scrivendo un libro, o raccogliendo il materiale per scriverlo, mi concentro soprattutto su quel che dice la gente. Di solito incontro i miei personaggi in modo del tutto casuale, ma sono sempre le loro affermazioni, il loro mondo, il loro modo di vedere che contano, non i miei. Io cerco di restare nell’ombra. Si tratta dei loro pensieri, delle loro visioni, delle loro riflessioni”. Dall’altra parte, perché non sia uno sforzo fine a se stesso, e tornando ancora alla lettura, si premura di ricordare che “scrivere fa parte del mondo della comunicazione. Il libro è un comunicato. Il processo di comunicazione si sposta secondo un moto lineare tra mittente e destinatario, che sono i due capi dello stesso filo. Se un libro di alto livello non trova un lettore di alto livello, resta sospeso per aria, manca l’obiettivo. Ricettività, attivismo, sforzo creativo devono risiedere in entrambi i capi di questo ponte”. Il collegamento dipende solo dal viaggio e lì Kapuściński confessa: “Di ogni strada mi piace pensare che si tratti una strada senza fine, che corre intorno al mondo”. Un passo alla volta, è la sua storia.