Partendo
dalla figura del lettore vista dentro romanzi che ormai sono qualcosa
più che classici, Ricardo Piglia tratteggia una sorta di manuale di
autodifesa del lettore e insieme un identikit di questa particolare
figura letteraria senza la quale non vive nemmeno il suo
corrispettivo più altisonante, lo scrittore, dato che “la
lettura costituisce uno spazio tra l’immaginario e il reale, fa
venir meno la classica opposizione binaria tra illusione e realtà.
Non c’è, al tempo stesso, niente di più reale e di più illusorio
dell'atto di leggere. Molte volte il punto d'intersezione tra il
sogno e la veglia, tra la vita e la morte, tra il reale e l’illusione
è rappresentato dall'atto di leggere”. Visto che tra le tanti
immagini del lettore che questo bel libro di Ricardo Piglia elenca
nelle sue forbitissime pagine c’è anche quella di “colui che
legge male, distorce, percepisce in modo confuso”, forse va la pena
di cominciare a parlarne leggendo dal fondo. Tanto non è un
thriller, non si svela la trama, non si brucia la sorpresa ed è
proprio nelle battute conclusive che, citato in due-righe-due, Josif
Brodskij spiega il senso ultimo del libro di Ricardo Piglia quando
dice: “In poesia come in qualsiasi altra forma di discorso, il
destinatario conta quanto colui che parla”. Il lettore, questo
essere misterioso che “tende a essere anonimo e invisibile”, che
non legge un libro, ma è “smarrito in una rete di segni”, che
vive in un mondo parallelo senza aver rinunciato all'idea che prima o
poi “quel mondo irrompa nella realtà”, sempre convinto, dai
libri e dalle sue letture, che “ciò che possiamo immaginare esiste
sempre, in un'altra scala, in un altro tempo, nitido e lontano, come
in un sogno”. Degli scrittori si sa tutto, dei lettori nessuno si
ricorda mai e allora Riccardo Piglia racconta la bellissima
solitudine grazie alla quale non sono, e non siamo, mai soli perché
“chi legge è protetto da qualsiasi turbamento, isolato dal reale”
e può permettersi altre lenti e altre finestre con cui guardare il
mondo perché “la lettura agisce come un modello generale di
costruzione del senso” ed è sempre salvifica, anche quando è
triste, malinconica, dolorosa. Le prove per rispondere a tutte queste
tesi Ricardo Piglia le va a cercare, come un qualsiasi lettore, in
quei libri dove il lettore trova “un nome e una storia” e allora
si comincia con Borges e da Buenos Aires si arriva a Dublino, da
Joyce si scivola verso Cervantes, Kafka, Tolstoj e persino un Che
Guevara che legge Jack London. Ogni lettore nella finzione diventa un
modello di lettura o un piccolo tassello di un volto che va
costruendosi pagina dopo pagina, insieme ad una particolarissima
bibliografia e ad un'idea di lettura che “si oppone a un altro
universo di senso. A un’altra maniera di costruire il senso, per
meglio dire. Abitualmente è un aspetto del mondo che il soggetto
accantona, un mondo parallelo. E l’atto di leggere, di possedere un
libro, è solito articolare tale passaggio. C’è qualcosa di magico
nelle parole, come se invocassero un mondo o lo annullassero”.
Serviva qualcuno che ricordasse che la lettura è una magia e un
viatico più per i sogni che per i sonni, perché in fondo in fondo
il lettore “è colui che arriva tardi, è l'ultimo cavaliere
errante”. Da questo libro, in poi, un po’ meno sconosciuto, un
po’ più fortunato.
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