Essendo
un’isola, l’Islanda è un ecosistema chiuso e concluso su se
stesso e si riflette nella vita dei suoi abitanti. Nello stesso
tempo, nonostante la distanza, l’Islanda non è dissimile dal resto
del continente europeo alle prese con crisi economiche, speculazioni,
violenze, abusi. I problemi di ogni altra nazione di questo mondo.
Anche a nord del paese, le tensioni risentono di tutti questi
elementi, in contrasto con la vita al rallentatore e i ritmi
bucolici. Einar, giornalista della capitale islandese viene spedito
ad Akureyri, una cittadina settentrionale che non raggiunge i
ventimila abitanti, dove un vento appena più forte della brezza
sarebbe già una notizia. Retrocesso a cronista di provincia, Einar
pare sempre all’ultima spiaggia nei suoi rapporti: con il giornale,
con la figlia (si intuisce una separazione, alle spalle), con la
solitudine, con l’alcol (a cui deve rinunciare) e con la sigaretta,
che consuma sempre come se fosse l’ultimo desiderio del condannato.
Messo così, è normale che affronti tutti gli ostacoli con
riluttanza. Mentre cerca un modus vivendi con un insopportabile
caporedattore centrale votato alla carriera e uno locale con cui non
si capisce, ad Akureyri tre persone muoiono in circostanze non
proprio naturali: una donna affoga durante una stupida discesa di
rafting con i colleghi per rafforzare lo spirito aziendale, una
ragazza si suicida e uno studente, appassionato attore e aspirante
regista, viene trovato carbonizzato. La trasferta comincia a farsi
movimentata: Einar trova un appiglio su cui concentrarsi, un posto
dove stare e da cui elaborare strategie di sopravvivenza. E’ un
osservatore meticoloso, distaccato, un investigatore istintivo e
maniacale, solo che ci mette un bel po’ ad arrivare la punto
giusto. Lento e caparbio, ha la tendenza a cercare e a ricostruire
l’intero quadro: le vittime, i colpevoli, il contesto, i moventi, i
precedenti, gli innocenti. Sono tutti importanti, nello stesso modo,
solo che è difficile spiegarlo e a Einar non sfugge la confusione:
“Tendenze sessuali, etnia, razza, pelle, nazionalità, culto.
Quando sono in ballo questioni del genere, la gente spesso confonde
le questioni secondarie con quelle principali. Qualsiasi siano i
motivi”. L’omicidio, in particolare, genera una moltitudine di
scintille anche nella sonnolenta Akureyri ma l’unico disposto a
seguirle sembra essere Einar, animato dall’istinto e dalla
necessità di sentirsi ancora vivo e utile. Una condizione che
Hannes, il suo direttore editoriale, ammette così: “Forse il tuo
dubbio, a guardar bene, è se tutti noi apparteniamo davvero a questa
società. A volte ne dubito anch’io. Ne dubito profondamente. Ma
non possiamo fingere che non esista”. Il tempo della strega
è un romanzo sornione, con un andamento indolente consono al tran
tran di Einar, però sotto la finta pelle della black comedy, i toni
ironici (se non proprio comici, a tratti) scoprono le incrostazioni
spontanee del ventunesimo secolo, che sono uguali a tutte le
latitudini: fusioni aziendali che sono fallimenti mascherati,
bancarotte figlie di ruberie continue, l’attrito tra tradizioni
religiose e radici pagane, lo sfruttamento indiscriminato del
territorio e le contorsioni politiche, la noia dei giovani e
l’assuefazione degli adulti. Senza pretese moralistiche e con molto
garbo perché Árni Thórarinsson ed Einar si somigliano molto, sanno
che per vivere in Islanda, come in ogni altro luogo, serve
accontentarsi un po’.
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