La notizia del ritorno di Omid, che ha lasciato Tehran durante la guerra con l’Iraq, riunisce Bita e Mashid. Attorno ai convenevoli, che cominciano con una tazza di tè e continuano nella colazione con una versione vegetariana del queymeh, un piatto iraniano di pomodori, caiano, cipolla, limone secco, patate e riso, le due donne si riavvicinano rileggendo il comune passato, senza nascondersi incomprensioni, bugie, sospetti, turbamenti. Mashid, dirigente scolastica, è la madre di Omid, a sua volta il miglior amico d’infanzia di Bita, negli anni in cui il cielo di Tehran era squarciato dai bombardamenti, e la sopravvivenza era soltanto una questione di una frazione di secondo, un gradino verso i sotterranei, un frammento di metallo, pochi millimetri. L’attesa di Omid, che sta per arrivare da Parigi, consente di evocare ricordi su ricordi, e mette in difficoltà entrambe le donne, che si ritrovano più legate che mai, perché nella difficile arte di convivere con il passato si accorgono che erano “sempre in fuga, in fuga dalla nostra stessa vita. Solo che da piccoli hai a disposizione più storie in cui perderti, e i racconti ti sembrano più credibili”. In realtà, la prospettiva è già cambiata quando Mashid apre la porta a Bita: Saddam Hussein è stato giustiziato e con lui non se ne sono andati soltanto il terrore e gli incubi notturni, i figli caduti al fronte e i razionamenti, ma anche quei momenti inestricabili, quelle scoperte, un nome pronunciato, uno sguardo insistito, che diventano fantasmi perché “quando ti perdi in realtà perdi qualcosa del tuo cuore e, finché non ti ritrovi, quella cosa non ritorna al suo posto”. Bita (che è la voce narrante, in prima persona) lo sa: è stata Mashid a far partire Omid senza un saluto e arrivata a trentacinque anni, sposata con uomo che l’ama, Kamran, vive la contraddizione di essersi persa e nello stesso tempo di sapere che “al giorno d’oggi perdersi e sparire è diventato proprio un’impresa”. I telefoni squillano, i social aggiornano, e non ci si può più nascondere. Bita vorrebbe ricomporre quello che è stato spezzato, o ritrovarne una scheggia, quanto basta a superare debolezze e tormenti. Non chiede molto, in effetti: “Mi piacerebbe avere qualcuno che mi pensasse e che dedicasse del tempo per scrivermi una lettera, una lettera da poter fare a pezzi ogni volta che sono arrabbiata, consolandomi col suono della carta strappata, oppure a cui dar fuoco riempiendo la casa di odore di bruciato fino a sentirmi sollevata”. La cenere delle storie di tutti quei giorni che non ha vissuto si mescola con quella delle sigarette (un’infinità) e che lei e Mashid accendono, come se volessero stendere una cortina fumogena sulle lacrime e sulle distanze che rimangono nonostante le parole, il queymeh, le cortesie, la pazienza e la comune trepidazione per Omid. L’esordio di Leyla Qasemi (Tehran, classe 1975) si specchia in un dialogo impervio e coraggioso, limitato dalle circostanze, eppure capace di abbracciare il senso storico di una nazione e le piccole variazioni dei destini individuali. La scrittura, limpida, asciutta, attenta al più microscopico dei dettagli o al più insignificante dei gesti, ha confidenza con un tono già maturo, preciso, credibile e musicale, tanto da farci ascoltare le voci di Bita e Mashid come se fossero qui, appena dietro una parete. Così vicine, così lontane.
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