Colpito al cuore dalle liriche di Puškin, Vikram Seth abbandona un’avviata carriera da economista per lanciarsi in un’impresa di 590 sonetti in rima ispirati a San Francisco, alla guerra fredda e a una vita intrisa di poesia. La sfida era dichiarata, sfrontata e ambiziosa fin dall’inizio. Raccontare in versi, in una lunga ballata, l’attualità del mondo così come lo vediamo con la sua moltitudine di voci, di simboli, di idee per aria, di connessioni che non uniscono e di parole che non dicono. Golden Gate doveva essere un romanzo in forma di poema, chissà, forse un omaggio senza timori alla gloriosa epopea di Walt Whitman, oltre che al dichiarato colpo di fulmine con Puškin. Con l’intenzione di abbracciare il possibile e l’impossibile, partendo dalle origini primordiali, quando Vikram Seth dice: “Cos’è in fondo l’origine del mondo? Un tic-tac nel silenzio dello spazio”. In corso d’opera, sospinto dall’innegabile ricchezza di un vocabolario e da una spiccata sensibilità ritmica, Golden Gate deve aver proprio invertito la sua polarità. Prendendo la mano a Vikram Seth è diventato qualcosa di molto simile a un poema in forma di romanzo perché la frammentazione delle sue stanze ha riflettuto, più che interpretato, il caos del nostro mondo, dove morale e legge spesso non combaciano (“Ci sono delle occasioni in cui morale e legge civile sono in conflitto. Anche se l’unica legge ufficiale è quella del diritto. Se rispondiamo alla nostra coscienza e non vogliamo distruzione e violenza e né che degli ordigni intelligenti colpiscano degli umani innocenti, ci vuole una chiosa alla citazione. Una corretta analisi filologica deve comprendere l’intera logica del testo”), la guerra è onnipresente (“La nostra nazione ha creduto a lungo che la guerra era uno sport”) e il dubbio è l’unica certezza (“Non c’è salvezza e non c’è vittoria. Non c’è difesa, non c’è alcun confine. Non ci sono limiti, non c’è storia”). Prosa o poesia, l’originalità e la temerarietà di Vikram Seth non sono in discussione perché Golden Gate è una rotta trafficata e rocambolesca attorno ad un’idea cosmopolita, un clamoroso laboratorio linguistico, che purtroppo è rimasto tale. Dovessero contare più le premesse dei risultati concreti, Golden Gate vincerebbe ancora oggi il premio Pulitzer. Essendo rimasto un caso, eclatante ma pur sempre un caso, rimane sospeso e incompiuto tra la certezza di una frattura epocale (“Noi/Loro. La scoraggiante visione che sottintende questa ribellione. L’ipocrita superficialità non estirperà il seme del peccato, e non guarirà questo caos dannato”) e una sincera curiosità che Vikram Seth, con una domanda sacrosanta (e rivelatoria), sintetizza così: “Se il desiderio lacera il tuo cuore, come può quello che hai letto qua e là, cose risalenti a secoli fa, convincerti che è fasullo l’amore che provi, e che questa tiritera di dogmi, cavalli e carri, è vera?”. Così viviamo oggi, e anche se nell’infinita ballata di Vikram Seth la domanda rimarrà senza risposta, la sfida è vinta, ai punti.
venerdì 24 novembre 2017
giovedì 23 novembre 2017
Geoff Dyer

mercoledì 22 novembre 2017
Jean Echenoz

lunedì 20 novembre 2017
J. G. Ballard
Cocaine
Nights è un romanzo importante e, per certi versi
indispensabile, perché è l’unico, negli ultimi anni, ad esplorare
in modo così esplicito ed incisivo il nostro futuro. La fantascienza
non c’entra nulla: anche se non si sono indicazioni specifiche,
Cocaine Nights è proiettato in un tempo che vede l’oggi
come passato prossimo e in un luogo, la spagnola Costa del Sol, che
per la sua vicinanza a Gibilterra, vale soprattutto quale paesaggio
metaforico, un’ambigua zona di confine. L’atmosfera generale, la
zuppa in cui J. G. Ballard intinge le sue intuizioni, è quella di
una comunità che dispone di quantità illimitate di tempo libero,
prospettiva che più di un sociologo si sentirebbe di controfirmare:
la televisione non è più sufficiente, la noia è sempre in agguato,
la voglia di vivere (e quindi: di consumare) potrebbe venir meno con
danni irrimediabili all’industria dell’intrattenimento, del
turismo, dello spettacolo, della pubblicità. Non ci sono in gioco
soltanto incalcolabili interessi economici, ma anche tutta la
complessa rete di rapporti, valori, tradizioni e convenzioni,
idiosincrasie e contraddizioni che fin qui hanno retto quelle
strutture (politiche, industriali, commerciali) che nessuna
rivoluzione è riuscita né a capire né, di conseguenza, a
rovesciare. Nelle propaggini di Cocaine Nights J. G. Ballard
scopre una sorta di accelerazione di questa decadenza, un impulso
all’autodistruzione per tedio che ha nella bucolica enclave di
villaggi turistici e campi da tennis,della Costa del Sol ha il suo
humus ideale. La risposta, per mantenere lo status quo, è
paradossale, ma comprensibile: trasgressione. Sesso, droga, soldi
sono gli stimoli adatti e cominciano a incuriosire sempre di più la
popolazione della Costa del Sol mentre le inevitabili
controindicazioni (microdelinquenza, tossicodipendenza, truffe e
derivati) diventano altrettante fonti di guadagno: sistemi di
sorveglianza, cliniche private, casinò, riciclo di denaro. Cocaine
Nights è molto lucido nel rivelare una perversa idea di
ingegneria sociale: il suo caos stratificato, il suo progettare una
vitalità con l’ambiguo supporto di vandalismi, furti, danni e
aggressioni, cresce dove “il crimine e la creatività vanno di pari
passo, e l’hanno sempre fatto. Maggior è il senso del crimine,
maggiore è la coscienza civica e più ricca la civiltà. Non c’è
nient’altro che faccia da collante in una comunità”. Una
percezione confermata altrimenti anche da Don DeLillo: “Considero
la violenza contemporanea una specie di risposta sardonica alla
promessa di appagamento consumistico. Uomini che non possono uscire
dalle loro minuscole stanze e devono organizzare la loro disperazione
e la loro solitudine, devono cercare un destino per disperazione e
solitudine e spesso finiscono per farlo con mezzi violenti. Vedo
questa disperazione nei pacchetti dai colori sgargianti e nella
felicità del consumatore e in tutte le promesse che la vita del
consumo ci fa giorno per giorno e minuto per minuto ovunque andiamo”.
Capace di trasformare un’esile trama noir in un’acuta
osservazione del presente, dove tra crimine e vittime le distanze si
sono affievolite, con Cocaine Nights J. G. Ballard tocca molti
nervi scoperti e, fin dall’incipit (strepitoso) ricorda che quella
frontiera l’abbiamo passata tanto tempo fa.
venerdì 17 novembre 2017
Derek Raymond

giovedì 16 novembre 2017
Ricardo Piglia
Partendo
dalla figura del lettore vista dentro romanzi che ormai sono qualcosa
più che classici, Ricardo Piglia tratteggia una sorta di manuale di
autodifesa del lettore e insieme un identikit di questa particolare
figura letteraria senza la quale non vive nemmeno il suo
corrispettivo più altisonante, lo scrittore, dato che “la
lettura costituisce uno spazio tra l’immaginario e il reale, fa
venir meno la classica opposizione binaria tra illusione e realtà.
Non c’è, al tempo stesso, niente di più reale e di più illusorio
dell'atto di leggere. Molte volte il punto d'intersezione tra il
sogno e la veglia, tra la vita e la morte, tra il reale e l’illusione
è rappresentato dall'atto di leggere”. Visto che tra le tanti
immagini del lettore che questo bel libro di Ricardo Piglia elenca
nelle sue forbitissime pagine c’è anche quella di “colui che
legge male, distorce, percepisce in modo confuso”, forse va la pena
di cominciare a parlarne leggendo dal fondo. Tanto non è un
thriller, non si svela la trama, non si brucia la sorpresa ed è
proprio nelle battute conclusive che, citato in due-righe-due, Josif
Brodskij spiega il senso ultimo del libro di Ricardo Piglia quando
dice: “In poesia come in qualsiasi altra forma di discorso, il
destinatario conta quanto colui che parla”. Il lettore, questo
essere misterioso che “tende a essere anonimo e invisibile”, che
non legge un libro, ma è “smarrito in una rete di segni”, che
vive in un mondo parallelo senza aver rinunciato all'idea che prima o
poi “quel mondo irrompa nella realtà”, sempre convinto, dai
libri e dalle sue letture, che “ciò che possiamo immaginare esiste
sempre, in un'altra scala, in un altro tempo, nitido e lontano, come
in un sogno”. Degli scrittori si sa tutto, dei lettori nessuno si
ricorda mai e allora Riccardo Piglia racconta la bellissima
solitudine grazie alla quale non sono, e non siamo, mai soli perché
“chi legge è protetto da qualsiasi turbamento, isolato dal reale”
e può permettersi altre lenti e altre finestre con cui guardare il
mondo perché “la lettura agisce come un modello generale di
costruzione del senso” ed è sempre salvifica, anche quando è
triste, malinconica, dolorosa. Le prove per rispondere a tutte queste
tesi Ricardo Piglia le va a cercare, come un qualsiasi lettore, in
quei libri dove il lettore trova “un nome e una storia” e allora
si comincia con Borges e da Buenos Aires si arriva a Dublino, da
Joyce si scivola verso Cervantes, Kafka, Tolstoj e persino un Che
Guevara che legge Jack London. Ogni lettore nella finzione diventa un
modello di lettura o un piccolo tassello di un volto che va
costruendosi pagina dopo pagina, insieme ad una particolarissima
bibliografia e ad un'idea di lettura che “si oppone a un altro
universo di senso. A un’altra maniera di costruire il senso, per
meglio dire. Abitualmente è un aspetto del mondo che il soggetto
accantona, un mondo parallelo. E l’atto di leggere, di possedere un
libro, è solito articolare tale passaggio. C’è qualcosa di magico
nelle parole, come se invocassero un mondo o lo annullassero”.
Serviva qualcuno che ricordasse che la lettura è una magia e un
viatico più per i sogni che per i sonni, perché in fondo in fondo
il lettore “è colui che arriva tardi, è l'ultimo cavaliere
errante”. Da questo libro, in poi, un po’ meno sconosciuto, un
po’ più fortunato.
mercoledì 15 novembre 2017
Árni Thórarinsson

giovedì 9 novembre 2017
Eshkol Nevo
Mentre la
Francia vince i campionati mondiali di calcio del 1998 con una
squadra cosmopolita e variopinta, quattro amici decidono, un po’
per gioco, un po’ per sfida, di cominciare una bizzarra partita con
il destino. In foglietti piegati e riposti con cura, infilano i loro
desideri più profondi che vorrebbero vedere realizzati entro e non
oltre un termine ben preciso, ovvero la successiva edizione dei
mondiali. Se l’idea parte nella condivisione della certezza che
“noi tutti sentiamo di appartenere a qualcosa solo quando siamo
insieme”, l’aver fissato una destinazione nella realtà implica
soltanto una precisione sulla carta dei calendari, ipotetica almeno
quanto la natura dei desideri. La scadenza, ogni quattro anni, è uno
spartiacque temporale, un confine invisibile e ideale tra speranze e
promesse, tra l’evoluzione delle personalità, l’incidenza
dell’età, degli imprevisti e delle probabilità. Quello che resta
è il dato concreto, e inalienabile, con cui è partito l’azzardo:
ormai scritti, i desideri resteranno lì, incidendo una linea
assoluta che rende il gioco inventato dagli amici davanti alla
televisione un rischio permanente, e inquietante. Zinedine Zidane
alza la coppa del mondo e arrivederci a quattro anni dopo. Eshkol
Nevo manovra con una certa abilità l’incrocio tra le personalità
di Ofir, Churchill, Amichai e Yuval (a cui vanno aggiunte Ilana,
Maria e Yaar) finché i desideri si realizzano, ma con una
“simmetria” (che è poi quella del titolo) sfasata rispetto alle
intenzioni, secondo trame imprevedibili, segnando la vita, i legami e
le storie degli amici. D’altra parte c’è una precisione
divinatoria se un gioco nato per caso e per scherzo davanti alla
televisione diventa un rituale rivelatorio, a cui i quattro amici
torneranno spesso a fare riferimento. Come se gli servisse a
comprendere che i desideri erano tutti giusti, ma al posto sbagliato,
mentre le tracce delle loro vite venivano segnate, anno dopo anno, da
quella che Eshkol Nevo chiama “incostanza dei sentimenti”. Come
era facile intuire, la partita è persa fin dall’inizio. La
difficoltà di far coincidere i legami e i rapporti con i propri
desideri non è l’unica che devono affrontare i quattro amici. Si
devono destreggiare anche con le proprie famiglie, con una vita
quotidiana fatta di guerra e di violenza, con città evanescenti e
notti surreali. Si devono confrontare anche con le fragili
intersezioni di un’amicizia con l’altra, dove, come capita
regolarmente nella realtà, il tradimento, l’assuefazione, il
sospetto e la confusione prolificano in modo esponenziale. “Se è
tutto sbagliato da cima a fondo, che almeno si tratti di un errore
maestoso” scrive Eshkol Nevo e, senza forzare i toni, anzi
piuttosto con garbo, misura e discrezione, conduce il romanzo in
porto. Solo che sua “simmetria” più che geometrica deve essere
stata matematica. Il segnale che giunge è che, pur di giungere alla
stessa somma, quell’insieme, che è poi il “desiderio” più
importante, vale la pena scambiare i ruoli, magari in attesa dei
prossimi mondiali.
mercoledì 8 novembre 2017
Paulina Chiziane

lunedì 6 novembre 2017
Omar Cabezas
E’
giovanissimo, Omar Cabezas, quando aderisce alla causa sandinista e
ha poco più di vent’anni quando raggiunge la guerriglia sulle
montagne del Nicaragua. Un passaggio irto di ostacoli e difficoltà
per uno studente universitario, che si rende necessario perché la
montagna insegna, allena, addestra. Il suo è un diario tenuto con un
linguaggio “fresco, divertente, diretto e irriverente”, come ha
scritto Carlos Fuentes, e comunque magnetico, come d’altra parte
l’ha definito Julio Cortázar. Due presentazioni di prestigio che
rendono bene il senso ultimo e più profondo di Fuoco dalla
montagna. La questione ideologica, la rivoluzione sandinista in
sé, resta sullo sfondo anche se il movente è sempre chiaro e
ineluttabile. L’attenzione di Omar Cabezas porta in primo piano
quello che è, a tutti gli effetti, un romanzo di formazione. La
resistenza collettiva e la maturazione personale cominciano proprio
dagli stenti quotidiani, dalla condivisione del dolore, della fatica,
della noia, del freddo e della solitudine. La montagna è impervia, è
un rifugio, ma è anche una trappola e l’azione è sempre
sottolineata dalle difficoltà, dagli sforzi estremi per supplire
alle necessità minime e indispensabili di ogni giorno. Mangiano
carne di scimmia, ma più spesso il menù è limitato a un po’ di
latte in polvere. Sopportano le sveglie all’alba, gli esercizi nel
fango, le lunghe marce, le malattie, la cupa tristezza per la perdita
di un compagno, gli allarmi, le emergenze e le ritirate. Più di
tutto la presenza incombente ed esigente della montagna. Lassù “la
pelle si fece dura, lo sguardo si fece duro, il palato si fece duro.
La vista si fece più acuta, l’olfatto iniziò a perfezionarsi, i
riflessi sempre migliori: ci muovevamo come animali. I nostri
ragionamenti si fecero sempre più duri, man mano che l’udito si
acuiva. Era come se ci rivestissimo della stessa durezza del bosco,
della durezza degli animali”. La metamorfosi porta Omar Cabezas a
scoprire che “il fuoco, su in montagna, è un’arte” e le sue
descrizioni ricordano da vicino Preparare un fuoco, il
classico di Jack London: “Man mano che prende il fuoco, la fiamma
emerge là dove c’era solo bagnato, il fuoco nasce là dove c’era
solo umidità, e prende forza, si avvicina ai rami più grandi,
accende i rametti poi quelli più grandi e quelli più grandi ancora,
finché non si accende del tutto. Quasi non ci si crede che possa
prendere un fuoco là in mezzo. Ti asciughi, ti scaldi: che possa
apparire del fuoco in mezzo a tanta umidità, in mezzo a tanta
pioggia, nel bel mezzo di una selva così umida, è una cosa
inimmaginabile”. Non di meno, il ritorno a valle, in città, dove
lo chiama la sua missione, è altrettanto pieno di stupore. Qualcosa
è rimasto incastrato nella montagna, il tempo è schizzato verso il
futuro, Omar Cabezas lo intuisce quando si ritrova a casa: “Mi
sembrava che quell’anno di assenza fosse durato un secondo appena.
Non sapevo se l’avevo vissuto davvero, se ero stato davvero su in
montagna. Di sicuro erano passati molti giorni, uno dopo l’altro,
prima di arrivare lì, ma non ero sicuro di essermene andato davvero.
Ero su una macchina clandestina, con due compagni armati e quando
passammo di fronte alla casa e la vidi, accidenti! Fu un colpo
incredibile, mi pareva tutto irreale. Ogni tanto ci convinciamo che
il mondo evolve con noi; ci convinciamo che sia il mondo a farci
evolvere; a volte abbiamo l’impressione che, se non ci sei tu,
rimane tutto immobile”. Una bella testimonianza.
domenica 5 novembre 2017
Ian McEwan

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