mercoledì 18 ottobre 2017

Amitav Ghosh

Il mondo così com’è oggi raccontato da un osservatore che ha un rapporto privilegiato con la scrittura e che riesce a mantenersi lucido e sicuro anche quando si trova nell’occhio di ciclone delle tempeste della storia. Ad Amitav Ghosh è capitato spesso, non tanto per vocazione o per andare in caccia di quell’adrenalina che è il sangue e l’anima di ogni reporter di guerra, quanto piuttosto perché il conflitto sembra essere averlo inseguito per gran parte della sua vita. Lasciatosi alle spalle l’India (che qui viene raccontata in tutte le variazioni delle sue guerre, interne ed esterne) si è ritrovato a vivere a New York proprio poco prima degli attacchi apocalittici al World Trade Center e dopo aver conosciuto tutto un catalogo di orrori e di disperazione in Cambogia, in Birmania e ancora altrove. Questa simbiosi con il conflitto non gli ha impedito però di perdere la lucidità e di mantenersi in equilibrio anche in mezzo alla paura e al disorientamento. E’ uno dei pochi intellettuali dei nostri tempi ad avere avuto il coraggio di scrivere: “La religione, la razza, l'etnia e la lingua non hanno alcun contenuto reale. Servono unicamente come linee di demarcazione. L'odierno contenuto dell’ideologia, qualunque vesta assuma, religiosa, linguistica o etnica, è lo stesso in tutti i paesi, anche se può variare l'articolazione simbolica”. Radunando gli articoli apparsi nell'arco di più di vent'anni, Circostanze incendiare diventa qualcosa di più: una complessa e insieme scorrevole analisi del mondo in cui viviamo e il faticoso arrancare di ogni narratore per raccontarlo perché, come tra il saggio e l'amaro scrive Amitav Ghosh, “è quando pensiamo al mondo che l'estetica dell'indifferenza potrebbe generare, che riconosciamo l'urgenza di ricordare storie di cui non abbiamo scritto”. Forse è l’esigenza di aggrapparsi in continuazione alle storie a permettere a Amitav Ghosh di mantenere la posizione, il punto anche in un frammento di carta geografica. Comunque, la sua fiducia nella lettura (“I libri marciscono se nessuno li legge”), nei legami tra luoghi e narrativa (“E’ questo dunque lo specifico paradosso del romanzo: chi ama i romanzi spesso li legge per il modo eloquente con cui comunicano il senso del luogo. Ma la verità è che proprio la perdita di un senso del luogo ne permette la rappresentazione narrativa”) non gli impediscono di cogliere fino in fondo i limiti impliciti e il più delle volte insondabili della letteratura di fronte all’apocalisse quotidiana: “Noi che scriviamo fiction, anche quando ci riferiamo a temi di rilevanza pubblica, non abbiamo scelta (e non importa quanto i nostri romanzi siano sdolcinati o stravaganti) se non quella di raccontare i fatti filtrati attraverso la nostra personalità. Il nostro approccio agli eventi, anche i più generali, è inevitabilmente limitato, basato e focalizzato su dettagli e particolari. Di qualunque fatto si scriva, si finirà necessariamente per trascurare il contesto politico”. Misurarsi con un fallimento indispensabile (Se c’è qualcosa di istruttivo nell’attuale disordine del mondo, è senza dubbio questo: che poche idee sono pericolose quanto la convinzione che ogni mezzo sia consentito in funzione di un fine auspicabile”) è l’unico modo per vedere come viviamo oggi anche perché, come scrive lapidario e acutissimo Amitav Ghosh, “in un mondo di esseri umani anche la sconfitta è una transazione”. Nell’era del mercato unico e assoluto dio, la letteratura non sarà la salvezza, ma uno dei modi, forse l’ultimo, per accorgersi che l’incendio è nato nelle parole e lì finirà in un’inutile cacofonia, che poi, per chi scrive e per chi legge, è la vera fine del mondo.

Nessun commento:

Posta un commento