Per
un grande narratore come George Perec anche un libro fatto
essenzialmente di appunti, idee, piccoli progetti, diventa
un’occasione importante per riflettere, per lasciare un graffio,
per indicare una direzione. Il canovaccio è offerto dalla
contemplazione, non ovvia, non banale, della città e dei luoghi che
occupiamo dove “lo spazio sembra essere, o più addomesticato, o
più inoffensivo del tempo: s’incontrano dappertutto persone con un
orologio, e solo molto di rado persone con una bussola. Si ha sempre
bisogno di conoscere l'ora (e chi sa ancora dedurla dalla posizione
del sole?) ma non ci si chiede mai dove si trovi. Si crede di
saperlo: si è in casa, si è in ufficio, si è nel metro, si è in
strada. E’ evidente, certo, ma è così evidente? Eppure, di tanto
in tanto, bisognerebbe chiedersi dove si sia (arrivati): fare il
punto: non solo sui propri stati d'animo, la propria salute, le
proprie ambizioni, credenze e ragioni d'essere, ma semplicemente
sulla propria posizione topografica, e non tanto rispetto agli assi
sopraccitati, ma piuttosto rispetto a un luogo o a un essere al quale
si pensa, o al quale ci si metterà così a pensare”. Una sorta di
estrapolazione dei significati della/dalla quotidianità, quasi un
tentativo di fotografarne lo scorrere senza soluzione di continuità:
“I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà:
niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno,
l’oblio s’infiltrerà nella mia memoria, guarderò senza
riconoscerle alcune foto ingiallite dal bordo tutto strappato”. La
vena sottile, ironica, e leggera come Italo Calvino ha insegnato, non
impedisce a George Perec di affrontare in modo limpido, diretto tutte
le problematiche relative a ogni luogo in cui viviamo, dalle camere
delle nostre abitazioni alla città (“Mai potremo spiegare o
giustificare la città. La città è qui. E’ il nostro spazio e non
ne possediamo altro. Siamo nati in città. Siamo cresciuti in città.
E’ in città che respiriamo. Quando prendiamo il treno, è per
andare da una città all'altra. Non c'è niente di inumano in una
città tranne la nostra umanità”), dalla strada alle trincee (“Si
è combattuto per minuscoli frammenti di spazio, per pezzi di
collina, qualche metro di lungomare, qualche picco roccioso, l'angolo
di una strada. Per milioni di uomini, la morte è arrivata per una
minima differenza di livello tra due punti che a volte distavano meno
di cento metri: si combatteva per intere settimane per prendere o
riprendere quota 532”) fino allo spazio per eccellenza, la pagina,
la pagina bianca, la carta dell’oceano di Lewis Carroll senza una
virgola. Puro nulla e, non a caso, è proprio qui che il libro di
George Perec comincia, perché “Scrivere: cercare meticolosamente
di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare
qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche
parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”. E’
anche la conclusione della cartografia di Specie di spazi,
stramba ed eccentrica finché si vuole, ma efficace.
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