venerdì 27 ottobre 2017

Hilary Mantel

Andrew e Frances Howe si trasferiscono in Arabia Saudita, a Gedda, dove lui dovrà sovrintendere alla costruzione di un nuovo e sontuoso palazzo ministeriale. La Turadup, la società inglese che ha in appalto i lavori, pensa a tutti i dettagli, con la mediazione di Jeff Pollard e sotto la responsabilità diretta di Eric Parsons, due figure che avranno un ruolo non relativo durante gli Otto mesi a Ghazzah Street trascorsi dagli Howe. Provenienti dall’Africa, già allenati a sopportare condizioni estreme e pericolose, apartheid compreso, Andrew e Frances affrontano l’impegnativo trasloco soltanto in virtù di un congruo riconoscimento economico: fuori dalle mura dell’appartamento affittato dalla Turadup c’è un mondo ostico, che però paga stipendi come da nessun’altra parte. Andrew è assorbito e sfiancato dal lavoro, Frances accusa ben presto un senso di isolamento, acuito dalle condizioni sociali e climatiche. Il calore opprimente si condensa nel senso di claustrofobia, persino all’aria aperta, anche di fronte al mare, dovuto all’attrito costante con le regole e le tradizioni, l’ipocrisia e i segreti celati dietro le porte chiuse, le voci e la lettura delle lettere ai giornali, le difficoltà nelle comunicazioni, perché “da quelle parti la curiosità è un fenomeno transitorio. Non che si venga a sapere tutto, ma nel giro di poco s’impara a conoscere ciò che è consentito. E’ un tipo di società riservata che non rende noti i propri difetti e non svela il modo in cui ragiona, che risponde alle domande pressanti con un’ondata di disinformazione e poi torna al suo prediletto silenzio. Una porta si chiude e, mentre stai mettendo insieme i luoghi comuni di tua conoscenza, se ne chiude un’altra, sbattendo”. Solo questi gli elementi che trasformano gli Otto mesi a Ghazzah Street in un’eternità. In effetti, la dimensione temporale è falsata, non soltanto dal calendario islamico, per cui “il tempo sembra scorrere a ritroso”. La giornata a Gedda è lunga, scorre come la polvere, impercettibile, sfuggente, friabile: l’unica attività concreta è andare a far compere, ma anche quello comporta limiti e rischi, in particolare se ci si avventura nel suk. Non a caso, il condominio dove abitano gli Howe è chiamato “il capolinea”: lì crollano in sonni agitati, bevono vino fermentato di nascosto e cercano di seguire le consuetudini degli espatriati, che sono quasi una società segreta. Il rischio di essere espulsi o (peggio ancora) di essere trattenuti è costante così come è continua l’ostilità verso le donne, costrette ad assecondare le imposizioni locali, a limitarsi, se non proprio a nascondersi. L’alternativa a Ghazzah Street, al “capolinea”, sarebbe (il condizionale è obbligatorio) un compound di maestranze occidentali, ancora più isolato, dato che la direttiva aziendale firmata da Eric Parsons è inequivocabile: “Il meglio che ci è concesso di fare, come individui, è tenerci alla larga dai guai”. Con una scrittura agevole, priva di inflessioni e complicazioni, Hilary Mantel riesce a rendere alla perfezione il senso di estraneità di Frances (soprattutto) e Andrew: la vita a Gedda è un’intricata nebulosa di leggi (scritte, dette e non dette) e al “capolinea” la trasferta professionale si sublima in un segmento di tempo alieno finché l’idea dell’esilio non appare del tutto fuori luogo. Un bel romanzo, utile ed efficace.

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