lunedì 23 ottobre 2017

Robert McLiam Wilson

L’esordio è bruciante: la descrizione di un parto che sembra uscire dagli inferi di Catholic Boy di Jim Carroll e invece è frutto di un giovane scrittore (classe 1964) nato a Belfast e rifugiato a Londra. Nelle due spicciole righe di biografia cìè un po’ tutto il mondo di Ripley Bogle e, a tratti, è difficile distinguere il personaggio dal suo autore, la realtà dalla fiction perché la crudezza del racconto, le vivide immagini che emergono dal diario della sua esistenza sono goffe, e brutali, tali da invischiare, fino alla fine, chi gli si avvicina. Tutto si svolge in un fine settimana un po’ lungo (si parte da giovedì), ma Ripley Bogle non ha molto da fare e spesso si lascia andare a ricordi, tormenti, estasi e confusioni, “Una mezza verità, la dura metà di niente. La storia sembra arrivata in fondo per me. Mi sono ritirato. Sono sceso e mi sono accucciato nella tonificante comodità del mio fallimento e del mio declino. Ho semplicemente capitolato di fronte al mondo e sono scivolato via, più silenzioso e meno ingombrante che potevo. Sono qui e felice di essere così”. La sua è la ricostruzione dell’inferno della vita sulle strade che ha toni spietati e durissimi. Gli homeless, in tutto il mondo, sono ormai così tanti che tra loro cominciano a emergere fior di scrittori. Immaginari, come può essere Ripley Bogle, o assolutamente veri sono comunque l’effetto di una presenza che la civiltà occidentale continua a ignorare e tendenzialmente a rimuovere. La verità è che gli homeless, invece, cominciano a riconoscersi e a trovare, non giustificazioni al loro stato, ma argomenti per difenderlo e valorizzarlo. Paradossalmente (ma nemmeno tanto), sono la coscienza critica più efficiente del momento, una parte di elettorato che nessuno politico andrà mai a cercare e a blandire. Si legge, tra le righe di Ripley Bogle: “Questo è il bello del vagabondaggio, si acquista lo status di pubblico: l’osservatore, lo sguardo di insieme dell’artista. Noi barboni vi guardiamo tutti, e vi ascoltiamo. Un po’ rudi, forse, ma non abbiamo un cazzo da fare”. Il tutto si complica per un irlandese come Ripley Bogle, che non riesce a schierarsi con nessuna parte (ed è facile capire il dramma), vaneggia come una specie di Oscar Wilde lasciato senza soldi e senza l’alta società, continua a ritenersi al di sopra di tutte le parti senza accorgersi di essere immerso nel disastro fino al collo. Beh, Ripley Bogle avrebbe usato altre parole, perché la ricerca degli eufemismi non è il suo forte e quando comincia a prendersela con tutto il mondo (cioè dall’inizio alla fine) riesce a riempire quasi quattrocento pagine, senza risparmiare nessuno. Il personaggio è quindi degno di nota e il suo autore, Robert McLiam Wilson mostra destrezza e abilità nel raccontarlo, tanto che in molti frangenti, Ripley Bogle sembra il diario di una sconfitta personale. L’unica eccezione che gli si può rivolgere è una certa ossessiva prolissità, come se avesse dovuto buttare fuori il rospo dopo una lunghissima attesa, ma le parole servono tutte perché un romanzo come Ripley Bogle riesca ad avere immagini che colpiscono lo stomaco come nessun apparecchio televisivo o cinematografico potrebbe. La scena finale, per esempio. Naturalmente, scopriteveli da soli, i particolari. L’unico dettaglio da svelare è il paesaggio scelto: in alto mare, un collegamento metaforico con l’acqua, simbolo della fertilità che apriva Ripley Bogle. Il cerchio si chiude e la decadenza occidentale trova in Robert McLiam Wilson un’altra voce che sale dai bassifondi. Tra un po’ qualcuno sarà costretto a dargli retta.

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