L’esordio
è bruciante: la descrizione di un parto che sembra uscire dagli
inferi di Catholic Boy di Jim Carroll e invece è frutto di un
giovane scrittore (classe 1964) nato a Belfast e rifugiato a Londra.
Nelle due spicciole righe di biografia cìè un po’ tutto il mondo
di Ripley Bogle e, a tratti, è difficile distinguere il
personaggio dal suo autore, la realtà dalla fiction perché la
crudezza del racconto, le vivide immagini che emergono dal diario
della sua esistenza sono goffe, e brutali, tali da invischiare, fino
alla fine, chi gli si avvicina. Tutto si svolge in un fine settimana
un po’ lungo (si parte da giovedì), ma Ripley Bogle non ha molto
da fare e spesso si lascia andare a ricordi, tormenti, estasi e
confusioni, “Una mezza verità, la dura metà di niente. La storia
sembra arrivata in fondo per me. Mi sono ritirato. Sono sceso e mi
sono accucciato nella tonificante comodità del mio fallimento e del
mio declino. Ho semplicemente capitolato di fronte al mondo e sono
scivolato via, più silenzioso e meno ingombrante che potevo. Sono
qui e felice di essere così”. La sua è la ricostruzione
dell’inferno della vita sulle strade che ha toni spietati e
durissimi. Gli homeless, in tutto il mondo, sono ormai così tanti
che tra loro cominciano a emergere fior di scrittori. Immaginari,
come può essere Ripley Bogle, o assolutamente veri sono comunque
l’effetto di una presenza che la civiltà occidentale continua a
ignorare e tendenzialmente a rimuovere. La verità è che gli
homeless, invece, cominciano a riconoscersi e a trovare, non
giustificazioni al loro stato, ma argomenti per difenderlo e
valorizzarlo. Paradossalmente (ma nemmeno tanto), sono la coscienza
critica più efficiente del momento, una parte di elettorato che
nessuno politico andrà mai a cercare e a blandire. Si legge, tra le
righe di Ripley Bogle: “Questo è il bello del
vagabondaggio, si acquista lo status di pubblico: l’osservatore, lo
sguardo di insieme dell’artista. Noi barboni vi guardiamo tutti, e
vi ascoltiamo. Un po’ rudi, forse, ma non abbiamo un cazzo da
fare”. Il tutto si complica per un irlandese come Ripley Bogle, che
non riesce a schierarsi con nessuna parte (ed è facile capire il
dramma), vaneggia come una specie di Oscar Wilde lasciato senza soldi
e senza l’alta società, continua a ritenersi al di sopra di tutte
le parti senza accorgersi di essere immerso nel disastro fino al
collo. Beh, Ripley Bogle avrebbe usato altre parole, perché la
ricerca degli eufemismi non è il suo forte e quando comincia a
prendersela con tutto il mondo (cioè dall’inizio alla fine) riesce
a riempire quasi quattrocento pagine, senza risparmiare nessuno. Il
personaggio è quindi degno di nota e il suo autore, Robert McLiam
Wilson mostra destrezza e abilità nel raccontarlo, tanto che in
molti frangenti, Ripley Bogle sembra il diario di una
sconfitta personale. L’unica eccezione che gli si può rivolgere è
una certa ossessiva prolissità, come se avesse dovuto buttare fuori
il rospo dopo una lunghissima attesa, ma le parole servono tutte
perché un romanzo come Ripley Bogle riesca ad avere immagini che
colpiscono lo stomaco come nessun apparecchio televisivo o
cinematografico potrebbe. La scena finale, per esempio. Naturalmente,
scopriteveli da soli, i particolari. L’unico dettaglio da svelare è
il paesaggio scelto: in alto mare, un collegamento metaforico con
l’acqua, simbolo della fertilità che apriva Ripley Bogle.
Il cerchio si chiude e la decadenza occidentale trova in Robert
McLiam Wilson un’altra voce che sale dai bassifondi. Tra un po’
qualcuno sarà costretto a dargli retta.
Nessun commento:
Posta un commento