mercoledì 25 ottobre 2017

Herman Koch

Mamma e papà davanti alla televisione riconoscono, in un programma di cronaca, il figlio come protagonista di un’aggressione a un clochard, brutale e tragica nella sua conclusione. Il papà non dice nulla: la violenza è un parte della sua malattia. La mamma non dice nulla, e basta. Il filmato è di bassissima qualità, il figlio e i complici sono vestiti come migliaia di ragazzi, nessuno li riconosce. Ma tra gli altri c’è un nipote, figlio di un politico professionista e candidato a primo ministro che, avendo scoperto il fatto, non vuole saperne di proseguire la sua carriera con una mina pronta a esplodere da un momento con l’altro. La “cena” convocata per l’occasione in un ristorante di lusso diventa un consiglio di guerra famigliare per decidere cosa e come fare. Nell’atmosfera misurata e controllata del raffinato convivio, cresce una livida ambiguità trasformando La cena in un clamoroso punto di domanda: l’imprevedibile che può pregiudicare il destino e travolgere carriere, abitudini, posizioni nasce proprio nell’alveo della famiglia e ancora prima di immaginare una via d’uscita, i commensali si chiedono come è stato possibile, cosa hanno già perso, più di ciò che potrebbero perdere. Il romanzo è solido e trascinante, anche se la scrittura è abbastanza diseguale. In alcuni passaggi è molto lirica, altrove riflette il passato di autore televisivo di Herman Koch, tradendo un insolito affetto per le immagini e per il loro dettaglio. Colpiscono i passaggi in cui il lettore viene proiettato sul tavolo, dentro il menù, nel fuoco amico della discussione e poi fuori, come se fosse uno spettatore degli eventi. “Potevo scegliere fra due alternative: rimanere a guardare dalla finestra o confondermi nella folla. Avrei potuto fare finta di avere una destinazione anch’io”: la considerazione di uno dei protagonisti della “cena” vale anche per il lettore. Una serie di cambi di prospettiva che permette al romanzo di mantenere la tensione di un thriller dall’inizio alla fine. Solo che qui non c’è alcun mistero sui colpevoli (sono noti fin dall’inizio i responsabili dell’omicidio), sui moventi o sulle motivazioni, peraltro piuttosto evanescenti. C’è una grande pressione, a tratti palpabile nei momenti più feroci della “cena”, in attesa di risposte che, in effetti, non arrivano. O meglio, diventano chiare una volta imboccata la ripida discesa del finale, a suo modo è una rivelazione, che lascia aperte al lettore tutte le possibilità narrative. Mettendolo in un vicolo cieco dal punto di vista morale: cosa è giusto, cosa è sbagliato, in questa inquietudine moderna, viene deciso a tavola, dove quattro persone sono costrette a confrontarsi con una drammatica scelta (come difendere i figli senza tradire i propri valori) e a discuterne tra una portata e l’altra con la soluzione (se si può parlare di soluzione) che arriva insieme a un enorme conto da pagare. La violenza, endemica e mimetizzata all’interno della stessa cerchia famigliare, si rivela, ancora una volta, e fino in fondo, un’opportunità perché “da qualche parte sarebbe rimasta una cicatrice, ma una cicatrice non impedisce di essere felici”. Fa pensare.

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